Ci sono settemila chilometri e dieci frontiere tra Jalalabad e Villa d’Asolo: il diciottenne Khan, oggi ospite del S.A.I. (Sistema Accoglienza Integrazione) di Asolo, racconta di averli attraversati tutti per sfuggire alle richieste dei talebani e per trovare un luogo dove raccogliere i fondi necessari per permettergli di portare in Italia anche la sua famiglia. Partito da casa nella notte nel 2019, con un cellulare e un po’ di denaro, ha impiegato quasi un anno per arrivare in Italia nella primavera del 2020.
Oggi Khan sta lavorando sulla sua istruzione, in attesa di trovare un lavoro e struggendosi, pensando ai pericoli che la sua famiglia corre in Afghanistan: la preoccupazione è tale da non volersi far riconoscere durante l’intervista per non suscitare eventuali ripercussioni. Un timore, questo, che condivide con chi è originario dei Paesi limitrofi, come un amico, proveniente dal Pakistan, anch’esso preoccupato per la vicinanza del confine e per la possibilità di essere riconosciuto e punito.
Tutto è iniziato (o, come afferma Khan, “non è mai finito”) due anni fa, nel 2019, quando i talebani non erano ancora al potere. In un villaggio vicino a Jalalabad, una zona sempre interessata dagli scontri tra le due fazioni, da una parte l’esercito regolare, dall’altra i talebani, sono cominciate ad arrivare alcune lettere.
Khan racconta che già a quel tempo i talebani chiedevano a ogni famiglia una sorta di pizzo, la “zachat”, una forma di carità verso i poveri che viene considerata un dovere dalla religione musulmana. Circa duemila euro il valore delle richieste talebane alla comunità, da devolvere una tantum ad alcuni riscossori notturni che, dopo aver superato le pattuglie dell’esercito regolare, venivano a bussare alla porta.
Il giovane Khan, primogenito, racconta di aver lavorato prima nei campi e poi con un commerciante di metalli, diventando di fatto l’unica fonte di guadagno della famiglia, composta da una decina di elementi. Attraverso la traduzione dell’amico pakistano, Khan spiega: “Non abbiamo mai pagato i tributi. Mentre i talebani stavano venendo a farci visita per riscuotere c’è stata una sparatoria”.
La coincidenza ha fatto sì che la famiglia venisse etichettata dai talebani come “spia”, costringendola a nascondersi da alcuni parenti. Khan sarebbe stato spinto soprattutto dai genitori a partire: dopo aver raccolto il denaro necessario, il giovane si è allontanato verso il confine con il Pakistan senza portare nulla con sé, nemmeno un documento.
Comincia così, senza certezze, il lungo viaggio di Khan dal Pakistan all’Iran, e poi attraverso la Turchia, dove dice di esser stato in detenzione per un mese, per poi arrivare in Europa dalla Grecia, passando per la Macedonia, la Serbia, la Bosnia e la Croazia, il tutto senza sapere la lingua, “oliando” con i pochi soldi a disposizione il passaggio alla frontiera e a piedi, prendendo i mezzi e facendo l’autostop. “Mi è capitato di dormire nel bosco, senza cibo, per 15 giorni” racconta.
“Qualche volta mi fermavo e chiedevo a qualcuno di comprarmi una scheda sim per chiamare la mia famiglia” riporta nella sua lingua. Una volta arrivato in Italia, Khan ha pure dovuto farsi la quarantena: “Volevo venire in Italia perché qui danno facilmente il documento e il permesso. Se fossi andato in Germania non sarebbe stato facile. A dirmelo sono state le persone che ho incontrato durante la fuga e in quarantena”.
L’équipe di Una Casa per l’Uomo, che gestisce i 15 posti del S.A.I., con tre appartamenti a Villa d’Asolo e due a Possagno, racconta che Khan è riuscito a chiamare la sua famiglia venerdì scorso: non può uscire di casa, è nascosta da alcuni parenti, ma sta bene.
“Si sente responsabile perché l’hanno aiutato ad andare via – spiega un operatore – L’obiettivo sarebbe quello di un ricongiungimento famigliare, agevolato dal fatto che Khan è titolare di protezione sussidiaria, ma prima bisogna attendere l’apertura di un corridoio umanitario”.
Come spiegato in un precedente comunicato stampa, il Comune di Asolo vuole proporsi come modello d’accoglienza, portando avanti progetti come il S.A.I. e mettendo a disposizione nuovi spazi e sportelli d’aiuto: l’aveva già fatto in passato, in altre situazioni di crisi e in altri paesi. “Non hanno scelta se non fuggire dal loro Paese – afferma il sindaco Mauro Migliorini – noi non possiamo ignorare il problema”.
Quando si chiede a Khan cosa pensa, in conclusione, di tutto ciò che sta succedendo in Afghanistan, lui risponde dicendo: “Mio padre mi ha raccontato cosa succedeva prima e la situazione era la stessa. Per quello la gente scappa: si sapeva che i talebani sarebbero tornati”. “Per un paese che cambia 19 volte la bandiera – aggiunge l’amico di Khan – non c’è pace”.
E sulle reali intenzioni dei talebani, se combattano per i soldi o per la religione, Khan risponde così, questa volta in italiano: “I talebani fanno la guerra non lo sanno neanche loro per cosa”.
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