Il 18 marzo si sono susseguite commemorazioni in onore della prima giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da coronavirus. La data non è casuale, siccome al 18 marzo 2020 risalgono le tremende immagini che hanno immortalato i camion dell’esercito in processione a Bergamo, che trasportavano le bare di alcune vittime di Covid-19.
Anche nei secoli scorsi venivano adottati metodi estremi per far fronte all’epidemia e al grande numero di morti.
Tra le varie cose, oltre al lazzaretto (vedi articolo), a Venezia era stata creata la figura del pizegamorti: “Si trattava di un particolare tipo di becchino, incaricato di trasportare i cadaveri durante le grandi pestilenze, chiamato così perché doveva anche accertarsi che la persona fosse effettivamente morta”, spiega l’insegnante Paolo Malaguti.
È intuitivo notare come fosse difficile trovare persone disposte a svolgere questa mansione, che comportava una vicinanza costante con il morbo, nonostante i pizegamorti indossassero una casacca in tela incatramata e guanti per evitare il più possibile il contatto con persone e cose infette.
A volte indossavano anche una stola con una croce rossa, simile a quella dei medici, perché fossero resi riconoscibili e dei campanelli che preannunciavano il loro arrivo. “L’ingrato compito era quindi affidato spesso a persone disperate, raccolte tra i carcerati, in cambio di un significativo sconto di pena”, continua Malaguti.
Talvolta i pizegamorti entravano nelle case in cui vivevano persone sole di cui non si aveva notizia da giorni e se le trovavano malate le caricavano sulle barche dirette al lazzaretto, se invece le trovavano morte, su quelle dirette alle fosse comuni.
“Ci sono storie che hanno dell’incredibile – racconta lo scrittore – Come quella di due ragazze che vennero prese per morte e portate nella fossa comune, ma lì si svegliarono, ancora vive. Si racconta che una per lo shock cambiò la voce e la mantenne per il resto della sua vita”.
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