Se si potessero semplicemente prelevare, così da sotto al cappello, quante storie potrebbe custodire ogni alpino che abbia fatto il servizio di leva? Un patrimonio immenso composto da aneddoti personali, genuini (qualche volta un po’ esagerati), che descrivono di fatto il passaggio di un uomo dall’età giovanile a quella adulta. Un viaggio dell’eroe come quelli che ci piace leggere o guardare al cinema, che inizia con una situazione di paura e smarrimento e prosegue con un ritorno a casa più consapevole.
Pochi italiani potevano permettersi di saltare quello che per loro a quel tempo era un ostacolo, la naja, che puntuale come un orologio veniva a prendersi i neomaggiorenni, strappandoli dal nido e mettendoli in riga: pochissimi (almeno tra i presenti all’Adunata) lo ritengono oggi come un’esperienza negativa, pur sottolineandone le difficoltà effettive.
Gli aneddoti delle Penne nere all’Adunata 2023
“La Leva mi ha insegnato oggetti che mi sono state estremamente utili nel proseguo della mia vita – ci spiega un alpino trevigiano che ha prestato servizio proprio a Belluno, oltre quarant’anni fa – È stata dura, durissima, ma quello che ho imparato poi mi ha reso quello che sono. Mi ha insegnato a sciare, ad arrampicare, passioni che coltivo ancora oggi”.
Ieri mattina, domenica 18 giugno, l’Adunata Triveneta di Belluno si è presentata come il contesto ideale per raccogliere qualcuna di queste storie personali, intervistando i meno giovani – per così dire – lungo le vie dell’ammassamento: bastava infatti passare per viale Tilman a Cavarzano, dedicata al ritrovo delle sezioni trevigiane, e tendere l’orecchio, per sentire qualche scambio di racconti tra i presenti. Come un alpino a cui è fuggito il mulo, che poi ha distrutto un porticato; come a un altro che ha perso il calcio del fucile, nascostogli dai compagni in un baule; come a una penna nera di Asolo che si è salvato per un pelo da una valanga, perdendo due compagni.
“Fare la Naja è stato bellissimo – ci racconta un alpino della sezione di Valdobbiadene – l’unico punto negativo era la paga, che era bassissima. Dalle 51 alle 57 lire. E per me che ero venuto dalla Svizzera, dove avevo lavorato prima di prestare servizio, era davvero una miseria”.
“Un’esperienza importante – afferma un alpino della sezione Montegrappa, – ma anche dura: la prima settimana ho pianto e basta. Alle reclute facevano tanti dispetti: lanciavano gavettoni, ti facevano portare pesi estremi e, insomma, te ne combinavano di tutti i colori”.
“Sono partito per la naja il giorno del mio onomastico – ci dice ridendo un alpino con i capelli lunghi e la barba foltissima – Ero di stanza a L’Aquila, così ho pensato di visitare la città prima di raggiungere la caserma. Ho aspettato a scendere dal treno alla mia fermata per continuare e farmi un giro per la città. Subito i secondini mi hanno accalappiato e mi hanno portato in caserma senza dire una parola. Mi hanno tagliato i capelli e la barba”.
“Avevamo un comandante che voleva fossimo sempre in orario – racconta un altro alpino residente nel coneglianese – ma il paese dove lui ci mandava a prendere la legna era pieno di bar e ristoranti: non riuscivamo a resistere alla tentazione di mangiare o bere qualcosa di buono e quando arrivavamo anche solo con un minuto di ritardo subito ci faceva fare una o due ore in piedi al gelo, immobili nella neve”.
Gli amori e le fughe dalla caserma
Alcuni, tra gli alpini, raccontano di essersi “imboscati” spesso dalle proprie funzioni in servizio. Di giorno e di notte, alcuni di loro hanno trovato degli escamotage per recarsi ad amoreggiare con qualche ragazza del paese vicino, altri sono stati ligi al dovere e si sono trovati anche a guidare qualche gruppo di uomini, altri ancora hanno semplicemente approfondito altre passioni, come la fotografia o le radiocomunicazioni.
C’è chi durante la leva ha trovato anche la fidanzata, in genere al rientro, come ultimo ricordo del luogo in cui hanno prestato servizio: Loretta, che faceva la sarta e aveva rammendato un vestito a un giovanotto, che gli aveva chiesto di essere elegante al ritorno a casa, racconta di aver incrociato quello che sarebbe diventato suo marito.
Spostando l’attenzione dalla sfilata delle penne nere al pubblico, vastissimo in piazza dei Martiri a Belluno, non bisogna dimenticare che, come sono tantissime le storie degli alpini, sono altrettante le storie di quelle donne che con quei giovanotti hanno avuto a che fare: quanti colpi di fulmine? Quante lettere d’amore scritte e mai recapitate? Quante relazioni interrotte o sospese per quella lettera gialla, recapitata a casa all’improvviso?
“Le montagne della Carnia sono più basse di trenta centimetri da quanto spesso le ho percorse. Trenta” ripete un alpino poco prima della sfilata. In effetti l’elemento della marcia è una costante nei racconti degli alpini: c’è chi racconta delle vesciche che creavano sui piedi e chi ricorda che i manici degli attrezzi, che da sempre sono un po’ storti per consentire di fare meno fatica a maneggiarli, lì erano completamente dritti, così da fare fatica”.
“Sono arrivato il primo giorno e ci hanno chiesto: chi è che sa guidare un camion? – racconta un alpino con i baffi della sezione di Treviso – Ho subito alzato la mano entusiasta. E loro mi han detto: bene, allora ai muli”.
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