Per fare il medico legale è bene avere il senso dell’umorismo: l’ironia aiuta a sopportare l’idea di avvicinarsi così tanto alla morte, giorno dopo giorno, senza mai farsi trascinare via nel buco buio in cui questa si rintana dopo aver colpito. Ma è soprattutto la passione a spingere i “tagliamorti”, come si definiscono prendendosi in giro da soli, ad affinare la propria ricerca e a scoprire tutto ciò che è possibile di un cadavere senza nome, senza volto, senza una storia chiara. Perché un’autopsia ben fatta, oltre che giustizia, può far anche prevenzione.
A sostenerlo è la dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa e antropologa forse tra le più famose in Italia, che, venerdì 28 luglio, ha partecipato all’incontro di “Trichiana, paese del libro” nei giardini di Palazzo Francescon, a Mel di Borgo Valbelluna. A raccontare la sua esperienza professionale e il suo libro “Naufraghi senza volto” non è stata soltanto lei però, bensì una lettura scenica a cura di Renato Sarti e Laura Curino, che ha saputo avvincere il pubblico tra aneddoti, musiche e immagini esclusive e inedite.
Attribuendo il medico legale a un’immagine comune viene da pensare immediatamente alle classiche crime story in televisione, dove tutto questo mestiere viene stereotipato: sebbene – sempre ironicamente – si definiscano i “CSI di Lambrate”, il Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense) è un’eccellenza riconosciuta a livello europeo. Non tutti sanno che gli studenti si recano proprio in questo laboratorio di Milano per studiare le tecniche autoptiche e i segreti del mestiere.
Nella sua vita la dottoressa Cattaneo ha analizzato migliaia di casi, più o meno violenti, dagli efferati omicidi della malavita alle eliminazioni più discrete e ai cold case, passando anche all’identificazione dei resti di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, risalenti a mezzo migliaio di anni fa, ma quello che ha toccato maggiormente la sua sensibilità personale, al di là della deontologia del suo mestiere, è stata l’esperienza con i tanti, troppi, naufraghi deceduti nel Mediterraneo.
Su questa esperienza il medico si concentrò dopo la perdita del padre, percependo come fosse ingiusto che un padre o una madre, un figlio o una figlia, da qualche parte in Europa o in Africa, potessero perdere un famigliare senza saperlo, senza che venisse mai più riconosciuto da nessuno, salutato, celebrato né sepolto. Dare un nome a un corpo è il primo comandamento per un medico di base ed è qualcosa che ha a che fare non con la legge, ma con qualcosa di più grande: con i diritti umani e con la dignità di ogni essere umano.
Dopo un primo naufragio, Cristina Cattaneo e la sua squadra cercarono di identificare ben 366 morti, tra eritrei e siriani a largo della costa italiana. Purtroppo, non sempre sui loro corpi trovarono indizi capaci di indicargli una scia da seguire: l’acqua del mare e i pochi oggetti portati con sé dai migranti rendevano l’identificazione un’impresa ardua, talvolta impossibile. Poco dopo, la storia si ripeté con il naufragio del “Barcone”, un’imbarcazione di ventitré metri dove viaggiavano stipate ben novecento persone.
Facciamo quindi alla dottoressa qualche domanda su un mestiere che, per quanto affascinante e a tratti intrigante, sembra richiedere una freddezza scientifica e al contempo un’ostinazione personale per la giustizia, la verità e i diritti umani.
“Quello del medico di base è un mestiere bello e logorante. Consiglio ai giovani di intraprenderlo, pensando però che oggigiorno la medicina legale, cioè la scienza per la giustizia, si sta trasformando sempre di più in un mestiere che applica la scienza alla medicina. Di conseguenza, è una professione che si sta aprendo ai diritti umani in modo sempre più ampio. Non si tratta soltanto di risolvere un caso o di dare elementi scientifici che possono aiutare a risolvere il singolo omicidio, ma si tratta di applicare la scienza per la tutela dei diritti umani contro l’identità, contro il crimine, contro la tortura”.
Quindi la medicina legare serve anche per prevenire?
Sì, soprattutto per prevenire. Se pensiamo di come siano importanti le scienze forensi per identificare, per esempio, i segni di maltrattamento sui bambini, piuttosto che sulle donne o gli uomini vittime di violenza sessuale, di tortura nel carcere o nei centri per il rimpatrio. Ecco, se noi conoscessimo e valorizzassimo meglio la medicina legale potremmo aiutare ancor prima che arrivi il peggio, quindi l’autopsia.
Lei ha visto il risultato dei crimini più efferati: perché l’esperienza con i naufraghi è stata così forte?
Tutte le esperienze che si avvicinano alla morte sono forti. Noi lavoriamo con le mani nella tragedia, nella morte, nella sofferenza e nella violenza altrui tutti i giorni. Quello che distingue il caso dei naufraghi però è che restare indifferenti a chi muore in quel modo è un ulteriore affronto alla vita. Per questo è fondamentale identificarli: fa parte della nostra missione.
Oggi gran parte della nostra vita è archiviata digitalmente, questo aiuta o meno l’identificazione di un cadavere?
Dipende. I social, per esempio, sono utilissimi per identificare un ignoto in quanto mostrano quei dettagli che poi possono essere riconosciuti sul corpo della vittima. Diciamo quindi che la società moderna ha portato a strumenti che non si limitano al dna, ma che possono facilitare il nostro mestiere.
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