Era buio pesto ad Auronzo. Così buio che appena si usciva di casa l’oscurità si appiccicava agli occhi e bisognava fissare il fuoco per alcuni minuti prima di tornare a vedere le cose. In autunno, il giorno moriva ben prima dell’ultimo imbrunire: all’ora di cena uno spiraglio vermiglio calava dietro Col Agudo, spegnendo la valle. A poche ore dal tramonto già russavano profondamente gli uomini e le donne che avevano lavorato senza tregua nei boschi. Rimanevano ritti, seduti o sdraiati sul letto a pancia in su, soltanto quei pochi a cui la notte non dava sollievo: gli insonni, gli innamorati non corrisposti, i bambini con gli incubi e coloro che avevano subito un torto.
Alcuni tra questi speravano nell’intervento della luce della luna per continuare a fare le loro cose, agli altri piaceva quell’oscurità a cui erano stati abituati da sempre: in silenzio, nel loro letto, zitti ad aspettare l’alba. A tutti loro capitava di alzare un po’ il capo, per controllare quanto il Col di Villapiccola fosse più scuro rispetto al cielo, dove ogni tanto appariva qualche stella. E fu in quelle occasioni, in quegli sguardi distratti, che la videro per la prima volta: una luce nel bosco, che appariva su e giù per il colle. La videro i bambini, a cui nessuno diede ascolto. Poi la videro una notte gli insonni, i giovani e i vecchi. La videro i regolieri, gli amministratori, i dottori, i maestri e chi conosceva (un po’) le scienze. Di giorno, in paese, non si parlava che di quella luce che appariva sul colle e poi di colpo spariva, per poi tornare, lì o da un’altra parte. E, col tempo, senza spiegazioni, insonni diventarono anche tutti gli altri.
Chi si avventurerebbe mai, ogni notte fonda, nei boschi più ripidi di Auronzo? chi faticherebbe per salire nei sentieri inconsistenti del Col di Villapiccola? Che fossero i morti? Che fosse il “diau”? Gli auronzani, con il naso premuto contro il vetro gelido della propria finestra, trascorsero così settimane di terrore, chiedendosi quale tremenda profezia o quale sconosciuto demone li attendesse nella notte. Ma tra gli abeti bianchi del Colle di Villapiccola, arrancando con il suo tabarro sui pendii scoscesi, imboccando con scarpe ormai consunte le scie scavate dai caprioli, c’era “Chel de la luse”, che impugnava sotto al mantello il suo “feral” squarciando l’oscurità per poi rapidamente ricucirla. Quest’uomo, torvo e vendicativo, apparteneva alla terza categoria di coloro a cui la notte non dava sollievo: chi aveva subìto un torto e voleva vendicarsi, questa volta nei confronti di tutto il paese.
Agli sgoccioli dell’Ottocento, paesi di montagna come Auronzo di Cadore non erano provvisti di illuminazione pubblica: sarebbe arrivata soltanto una decina di anni più tardi, nel 1908, come in altre zone del Cadore. Vedere una luce nella notte, a quel tempo, era qualcosa di insolito: incamminarsi al buio significava rischiare di perdersi o di scivolare in un crepaccio. Inoltre, il fatto di vedere una torcia accendersi e poi spegnersi, in modo intermittente appariva ancora più strano: vista la religiosità e le credenze popolari dell’epoca, i paesani optavano per attribuire un evento del genere a un fatto miracoloso o sinistro, piuttosto che ragionare su una spiegazione scientifica.
Questa storia, piuttosto conosciuta ad Auronzo e tramandata oralmente fino ai giorni nostri (viene raccontata ancora anche alle Scuole elementari di Villapiccola), si riferisce a un fatto reale e a una persona realmente esistita: un individuo dal carattere irrequieto che, per un certo periodo, usciva di casa in piena notte con un lungo mantello a collo alto e una torcia, attraversava l’Ansiei (perché a quel tempo non c’era il lago) e saliva sul Col di Villapiccola, letteralmente soltanto per terrorizzare i suoi compaesani. Alcuni anziani, primi uditori di questa storia da chi l’ha vissuta veramente, raccontano che quest’uomo, i cui discendenti vivono ancora ad Auronzo, avesse un conto in sospeso, anche se le sue motivazioni sono andate perdute.
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