“Sono le venti e tutto va bene”: c’era una volta il Guardafuochi, custode notturno delle borgate in legno

Un tempo, in Cadore, la stragrande maggioranza degli edifici era in legno. Questo perché le Regole di ogni paese, ovvero l’antica istituzione che amministrava la proprietà condivisa tra le famiglie del luogo, fornivano gratuitamente la legna utile alla costruzione degli stessi, a patto di aver espletato i doveri collettivi della comunità. La letale combinazione tra la costruzione di case troppo vicine tra loro e l’introduzione del fiammifero causò in quel periodo storico decine di incendi, al punto da distruggere interi paesi.

Nel 1845, a Padola, dei ragazzini stavano giocando proprio con un fiammifero quando accidentalmente diedero fuoco a un fienile. Gran parte degli uomini erano impegnati a disboscare altrove, quindi a Padola erano rimasti anziani, donne e bambini. In quel tremendo rogo si salvò soltanto una casa, ma quell’episodio portò a un ripensamento totale dell’edilizia montana. Come viene ampiamente spiegato all’ultimo piano del Museo Algundnei di Dosoledo (Comelico Superiore), accaddero disastri simili in tutto il territorio, compreso a Lozzo di Cadore. 

Il museo Algundnei

A quel punto le autorità locali stabilirono che gli edifici bruciati avrebbero dovuto essere sostituiti con strutture a muro e la ricostruzione dei paesi divenne un’occasione per ripensare il villaggio anche dal punto di vista architettonico. Le Regole chiamano questo statuto, poi redatto e applicato, il “Regolamento di rifabbrico”. Questo è il motivo per cui oggi l’architettura della montagna cadorina appare “meno tipica” in alcuni quartieri, mentre conserva il proprio aspetto caratteristico in altri. In futuri approfondimenti di questa rubrica riprenderemo alcuni di questi esempi.

Prima del rifabbrico, occorre considerare che in alcune località gli orari del fuoco erano attentamente regolati: c’erano paesi nei quali si poteva accendere il fuoco soltanto fino al crepuscolo, poi bisognava accontentarsi del tepore delle braci. Questo non bastava a prevenire gli incendi, che erano solitamente furiosi e implacabili, considerando anche i mezzi di allora.

L’opera di Ugo Demetz e Ossi Senoner “In Vaita”

L’unico modo per fermare un incendio limitando i danni era accorgersene tempestivamente: per questo motivo nei paesi, d’estate come d’inverno, esisteva una figura che oggi noi abbiamo perlopiù dimenticato: in italiano potremmo definirlo “il guardafuochi”, mentre in queste zone veniva chiamato in modi diversi a seconda del dialetto. Ad Auronzo, per esempio, lo chiamavano la “bona guardia del fogo”, perché prima di passare urlava: “Oh oh, la bona guardia del fogo!” per farsi sentire. In Comelico, la ronda era chiamata “La Vaita” (ovvero la vigilanza).

Il ruolo di questo custode era quello di pattugliare le contrade della borgata di notte, in genere con una lanterna, oltre a destare e chiamare a raccolta tutti in caso di incendio o di pericolo imminente. Era un mestiere semplice, ma la responsabilità che l’incaricato si assumeva non era da poco, considerando i rischi di quegli anni.

Alcune testimonianze di allora ricordano come questa figura passasse per le strade urlando di volta in volta “sono le dieci e tutto va bene” e, un’ora dopo, “sono le undici e tutto va bene”, e così via. Un’usanza davvero antica, forse millenaria, che ritroviamo anche in alcuni classici del cinema d’animazione per bambini.

A Costalta, ancora ricca di edifici in legno, una statua ricorda ancora il ruolo di quest’uomo, solo nel bagliore di una lanterna: probabilmente egli conosceva tutti i segreti notturni del paese, aggirandosi nell’oscurità tra le vie del borgo e magari spiando, di tanto in tanto, alle finestre.

(Fonte: Qdpnews.it © Riproduzione riservata).
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