Il legame tra la poesia dialettale e la Valsana ha inizio nella seconda metà del Cinquecento, quando un geniale drammaturgo veneziano, Andrea Calmo, dedica la sua raccolta di poesie “Le bizzarre, faconde et ingeniose rime pescatorie” al futuro conte Brandolino V di Cison di Valmarino.
Così recita l’intestazione alla dedica, nella stampa principe del 1557: “Al magnifico, et generoso conte el Signor Brandolin, fiol unico del signor Guido, conte della Valle de Marin”.
La dedica sembra far intendere che il Brandolini, vivente ancora il padre, risiedesse pressoché stabilmente nella città lagunare, e fosse amante del teatro e del bel vivere che lì si faceva.
L’edizione di riferimento di questa breve raccolta, è quella curata da Gino Belloni: Andrea Calmo, “Le faconde, bizzarre et ingeniose rime pescatorie”, Padova, Marsilio, 2003.
La seconda tappa non può che essere Pieve di Soligo, patria di Andrea Zanzotto (foto copertina), uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, autore anche di raccolte nel suo dialetto materno.
Il secondo Novecento, grazie all’influenza del neorealismo, predilige i dialetti dei piccoli villaggi, quando non addirittura delle più minute frazioni, piuttosto che le grandi parlate regionali o dei capoluoghi (come il veneziano, che vanta una letteratura di lunga tradizione), per dare un’estrema testimonianza di quel “piccolo mondo antico”, espresso appunto dal dialetto, che sta per essere travolto e cancellato per sempre dall’industrializzazione.
Recentemente tutta la produzione dialettale del poeta pievigino è stata raccolta in un unico volume, dal titolo “In nessuna lingua In nessun luogo. Le poesie in dialetto (1938-2009)”, uscito nel 2019 per i tipi di Quodlibet.
Anche se non scriverà mai in dialetto, non si potrebbe comunque trovare un poeta più legato e immerso nella vita del suo paese come Giocondo Pillonetto, che della sua Sernaglia è stato sindaco e vi ha gestito un’osteria per quasi tutta la vita.
La più recente edizione della sua unica raccolta poetica è: Giocondo Pillonetto, “Penultima Fiaba”, Treviso, Canova Edizioni, 2002.
Con Luciano Cecchinel cioè colui che può considerarsi, a tutti gli effetti, l’erede di Zanzotto, risaliamo il corso del Soligo fino a Lago.
Cecchinel ha esordito nel 1988 con la sua prima raccolta di poesie in dialetto laghese: “Al tràgol jért/l’erta strada da strascino”, la cui ultima edizione, riveduta e ampliata di nuove composizioni e arricchita da una postfazione proprio di Zanzotto, è uscita a Milano nel 1998 edita da Vanni Scheiwiller.
Un dato interessantissimo è l’attenzione documentaria del dialetto che la pagina scritta di Cecchinel riesce ad offrire, grazie all’ampio uso di accenti e diacritici che guidano alla corretta pronuncia; cito l’incipit di “Agonia di primavera”, contenuta appunto nella prima raccolta: “Mi son l’ultimo vècio đe sto paeṡe./In te la me mènt/l’é poret al cuèrt de laste/e ‘l cođolà lis l’é ‘n larin grant/che ‘l fogo ‘ndat l’à asà croste/đe ẑendre e đe fret”.
Il simbolo đ, per esempio, indica quel fonema che i linguisti chiamano “d interdentale”, che è suono tipico del veneto rurale: il poeta si fa quasi filologo, e questa attenzione peculiare alla resa fonica del testo testimonia dell’avvenuta oggettivazione dell’esperienza poetica dialettale, in un rapporto con la lingua madre ormai pacifico, senza la nostalgia che caratterizzava i dialettali dell’epoca neorealista.
Anche se ultimamente sembra prediligere la poesia in lingua (la sua ultima raccolta, che gli è valsa anche il premio Viareggio-Rèpaci 2020 si intitola “Da sponda a sponda” ed è in italiano), Cecchinel non ha mai smesso di essere, intimamente, un “dialettale”: ancora il suo recente romanzo “La parabola degli eterni paesani” (la copertina nell’ultima foto), uscito nel 2018 e che racconta di un’esperienza di lotta politica realmente vissuta dal poeta, è scritto in un italiano dal forte colorito popolare.
(Fonte: Redazione Qdpnews.it).
(Foto: web).
#Qdpnews.it