Amare non significa possedere: una riflessione per educare all’amore

La scorsa settimana un trentanovenne dell’hinterland coneglianese è comparso di fronte al GIP per difendersi dalle accuse di stalking e violazione di domicilio. Ad accusarlo la sua ex compagna a seguito di un anno di continue molestie – chiamate, comparsate sotto casa, offese, ingiurie nei confronti della donna e di chi le stava intorno, minacce di morte.

Si tratta di un copione trito e ritrito: una relazione più o meno felice incrinata dalla gelosia e da qualche episodio di violenza da parte di lui, la rottura definitiva da parte di lei, la mancata accettazione da parte di lui e l’inizio dell’incubo.

Queste sono situazioni molto delicate che meriterebbero la massima attenzione, visto che troppe volte l’epilogo è dei peggiori in mancanza di una vera e forte tutela da parte dello Stato. Spesso poi l’informazione e l’opinione pubblica aggiungono al danno la beffa con la vittimizzazione del carnefice, giustificato da fantasiose scuse come “l’amava troppo”.

Tralasciamo per un attimo gli interrogativi intorno al senso del “troppo” in amore. Anche volendolo sostituire con “tanto”, è comunque evidente che “tanto amore” non può sfociare in un omicidio, ma nemmeno negli insulti e nello stalking.

Amore va a braccetto con il rispetto, e se non si rispetta una persona abbastanza da lasciarla libera di vivere come desidera, allora non la si ama.

La vera colpa di chi rende il proprio partner una vittima di reato è quella di non rispettarla come individuo e di trattarla come una cosa di cui disporre a proprio piacimento.

Inoltre, vittimizzare il carnefice con la narrazione del “l’amava troppo” significa normalizzare un concetto di amore come possesso quando invece l’amore più autentico riconosce nell’altro un individuo indipendente da sé e libero di scegliere il proprio bene.

È evidente che nonostante sia il 2021 è ancora necessario educare all’amore. Ne sentiamo parlare tutti i giorni e da tutte le parti ma ancora non riusciamo a soppesarlo veramente.

Certo, definirlo non è affatto semplice – la filosofia se ne interroga da millenni – ma è opportuno almeno sdoganare pericolose associazioni come quella che lo lega al possesso.

Scrive il filosofo Umberto Galimberti, punta di diamante della filosofia italiana contemporanea, che “Il possesso non tende al bene dell’altro, né alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione, che, lungi dal garantire la felicità, la sacrifica in cambio di sicurezza”.

La sicurezza, il mio benessere, è vulnerabile alle scelte dell’altro, dunque quando si perseguita, ferisce o uccide il proprio ex che ci lascia lo si fa perché si ama “troppo” sé stessi.

E ancora Cartesio, nel lontano Seicento, ci dà una lucida lettura della gelosia: “Si disprezza un uomo geloso di sua moglie perché è un segno che egli non l’ama in modo giusto; infatti, se provasse vero Amore per lei, non avrebbe alcuna inclinazione a diffidarne. Ma non è proprio lei che egli ama, è solo il bene che egli immagina consistere nel possederla da solo”.

Chi giustifica la gelosia la vede come una “coccola” al proprio ego (“Mi ama così tanto da preoccuparsi che io possa lasciarlo/a”) e ricade nella trappola dell’amore come possesso.

Ci sono ancora tanti uomini e tante donne che, anche grazie a una insistente narrazione sbagliata dell’amore, vedono la possessione come una dimostrazione di “grande” amore; ci tradisce anche l’uso spropositato dell’aggettivo/pronome “mio” detto più o meno inconsapevolmente.

La vera sfida dell’amore invece sta nell’equilibrio – difficile ma da ricercare – tra il proteggere sé stessi tendendo anche al bene dell’altro.

Articoli correlati: http://www.lachiavedisophia.com/blog/amore-liberta/  e http://www.lachiavedisophia.com/blog/follia-abita-amore/ .

(Fonte e foto: La chiave di Sophia).
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