Che cos’è il fotoreporter di guerra e come lavora? Quali rischi corre? Sono soltanto alcuni dei quesiti a cui ha risposto Gabriele Micalizzi, noto fotoreporter che ha vissuto diversi luoghi di conflitto, nel corso dell’incontro pubblico organizzato dall’associazione di fotografia Inquadra, tenutasi lo scorso venerdì 12 maggio all’auditorium “Dina Orsi” di Conegliano.
Dopo i saluti iniziali del consigliere Paolo Manzalini in rappresentanza del Comune e una breve introduzione da parte di Andrea Armellin, presidente di Inquadra, è stata la volta di Micalizzi, attivo da 20 anni sul campo e vincitore di prestigiosi riconoscimenti nell’ambito del fotogiornalismo.
“Il mestiere di fotoreporter è difficile, a tratti anacronistico. Io provengo dalla periferia di Milano e da sempre ho sentito dentro di me la necessità di esprimermi – ha raccontato, svelando anche un passato da tatuatore – Cercavo la storicizzazione delle mie forme di espressione e la fotografia mi permette di filtrare la mia personalità”.
“Poi, sono convinto che, senza la storia non possiamo creare il nostro futuro, e ci vuole chi la racconta”, ha aggiunto.
Afghanistan e Thailandia sono stati solo alcuni dei Paesi che Micalizzi ha esplorato e raccontato con il suo obiettivo: “In Thailandia ho capito che volevo fare quel mestiere – ha confessato – In guerra ho imparato tante cose e che, dove le persone non hanno niente, sono più disposte a condividere. L’umanità che ho trovato in queste persone mi dà speranza per il resto del mondo”.
Ma come funziona il racconto di un conflitto attraverso la fotografia? “Ci vuole un narratore super partes, che racconti quanto succede – è stata la risposta del fotoreporter – La narrazione dà gli elementi per non ripetere lo stesso errore. Considerate poi che ci sono guerre, come quelle in Iran e Iraq, che non sono state sentite da noi. Il conflitto in Ucraina, invece, si è fatto sentire di più, perché empatizziamo di più con loro”.
“Non racconto nessun lieto fine. Non sono un opinionista: sono lì per riportare i fatti – ha aggiunto – Quando fai il fotoreporter nelle zone di conflitto, ti trovi in una posizione scomoda, non sei ben visto”.
Gabriele Micalizzi non ha nascosto anche quelli che sono i rischi fisici del mestiere: “Sono sopravvissuto a 4 attentati e sono stato anche ferito”, ha raccontato.
A livello di stile e di linguaggio fotografico, la fase dell’editing a suo avviso è quella fondamentale: “Il fotografo ha un’identità nel momento dell’editing, in quella che io chiamo ‘identità per negazione’, legata alle scelte che fai – ha affermato – Il progetto, quando nasce, ha un’identità e una coerenza nel linguaggio”.
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