Marianna Santin, 43 anni, suora missionaria comboniana, medico ginecologo, originaria di Conegliano, ha alle spalle 8 anni trascorsi in missione in Sud Sudan e gli ultimi 3 a Kampala, in Uganda. Di recente è tornata in Italia, e Qdpnews.it l’ha intervistata.
Erano 5 anni che non metteva piede in Italia. Com’è stato il primo impatto?
“A parte il freddo a cui non ero più abituata [ride, stringendosi nel pile che ha addosso], mi ha colpito, direi, il silenzio: non sentire il vocio dei bambini e di tantissimi che si ingegnano con lavori informali lungo le strade delle città (vendendo banane, mango, vestiti di seconda mano e l’ultimo business: mascherine!). La vita in Africa si vive lungo la strada! Una cosa a cui non ero più abituata è proprio l’età avanzata della popolazione qui: il crollo demografico è tremendamente tangibile per chi viene da fuori. In Uganda il 48% della popolazione ha meno di 15 anni”.
La sua prima missione invece è stato il Sud Sudan, un Paese che subisce ancora le conseguenze della guerra civile.
“La situazione in Sud Sudan è drammatica: si tratta di un Paese che lentamente sta provando ad uscire dal conflitto. Ottenuta l’indipendenza nel 2011, è precipitato in una guerra civile nel 2013, a fatica sono stati firmati nel 2018 gli accordi di pace, ma sussistono ancora scontri a sfondo etnico – politico. A farne le spese è soprattutto la popolazione. Ho vissuto a Wau (seconda città del Paese ndr) all’indomani dell’indipendenza e durante la guerra civile. Lavoravo nell’ospedale missionario diocesano che era stato restituito dai militari alla diocesi dopo l’indipendenza e ricostruito. Come spesso accade in Africa, l’ospedale missionario sopperisce alle falle delle strutture governative, una dinamica che ho avuto modo di approfondire in Uganda”.
Prima di tornare in Italia infatti si trovava a Kampala, in Uganda. Cosa faceva lì?
“Ho frequentato un master di tre anni in ginecologia e ostetricia all’università statale Makerere. Una scelta un po’ controcorrente, ma avevo incontrato medici ugandesi molto preparati e soprattutto volevo conoscere la vita e le sfide di un ospedale governativo in Africa. Parallelamente ho quindi lavorato in uno dei reparti di maternità riconosciuti anche a livello internazionale come uno dei più prolifici al mondo: nascono circa 70/80 bambini al giorno, e il più delle volte si tratta di parti complicati”.
Che realtà sanitaria ha incontrato?
“Nominalmente l’accesso alle cure sanitarie è gratuito, ma di fatto sono gli stessi pazienti che, sottobanco, pagano gli infermieri, addetti alle pulizie, medici per un catetere, un’iniezione, un cesareo… Oltre al pesante carico di lavoro si deve fare i conti con la carenza di materiale (assurdo come si chieda agli stessi pazienti di comprare guanti, fili da sutura, ecc.) e con un personale spesso assente perché ci sono molti infermieri, anestesisti che parallelamente lavorano nelle cliniche private e quindi si presentano in ritardo agli interventi. Quando ti raffronti con una realtà di questo tipo diventa poi naturale apprezzare tantissimo il sistema sanitario italiano, che dobbiamo difendere”.
Quali sono gli episodi più belli a cui assiste nel suo lavoro? E quelli più brutti?
“Quando riesci a salvare un neonatino e una mamma arrivati in fin di vita non puoi che ringraziare il Signore! Sentirlo piangere dopo un’efficace rianimazione provoca una gioia infinita. Episodi dolorosi? Sì, purtroppo tanti, quando perdi una mamma o un bimbo che si sarebbero potuti salvare anche solo se ciascuno avesse fatto la sua parte (penso al personale assente soprattutto). Ecco, l’impotenza dinnanzi a vite che potevano essere salvate è ciò che addolora di più”.
Prima si parlava di bambini che vede dappertutto nelle strade e di un’età media ben al di sotto della nostra (oltre il 50% della popolazione ha meno di 18 anni in tutti e due i Paesi). Avendo frequentato anche l’università a Kampala, si è fatta un’idea di chi siano questi giovani?
“Sono giovani pieni di risorse e talento, che mettono al primo posto la scuola. Il valore dell’istruzione in Uganda è altissimo, il titolo di studio dà prestigio, emancipa, riscatta e permette un guadagno. Per dire, molta gente ha come immagine profilo di WhatsApp la foto della propria graduation, anche a distanza di anni, a dimostrazione di come rappresenti una sorta di status. Il sistema scolastico ha uno stampo anglosassone, è estremamente competitivo e costoso, sin dalle scuole dell’infanzia dove i bambini indossano uniforme e cravattino, retaggio del colonialismo inglese. Il peso economico grava però sulle famiglie e questo provoca un carico di ansia negli studenti e nei genitori, angosciati di non riuscire a pagare le tasse scolastiche. Se poi molti di loro non riescono a spiccare il volo è per la corruzione e il sistema dittatoriale (in Uganda il presidente è insediato dal 1987) che rallentano le potenzialità dei giovani. I loro sogni sono tarpati da sistemi politici che devono autodifendersi. Nonostante tutto continuano ad avere una forza e una capacità di resilienza che mi commuovono”.
Cosa le hanno insegnato esperienze del genere?
“Da loro ho imparato il team work, questo modo di lavorare “in gruppo” che vale un po’ per tutto. Per esempio in chiesa hanno cori numerosi con più direttori d’orchestra che si alternano. È una piccola cosa, ma significativa. In ospedale poi c’è più alternanza tra chirurghi rispetto all’Italia e si lascia molto spazio ai giovani. Sicuramente si danno più responsabilità. Mi porto poi nel cuore la loro fede straordinaria, incrollabile: sono persone resilienti, che non si abbattono mai. Non hanno da mangiare oggi? Ok, mangeranno domani. Hanno fede”.
“Fede” è una parola presente anche nella sua vocazione. Cosa l’ha portata a voler diventare missionaria?
“Credo che la vocazione la ascolti e la scopri un po’ alla volta. L’humus della mia vocazione è stato l’amore per la parola di Dio (acceso in me dalla mia maestra delle elementari!), la sconvolgente scoperta della diseguaglianza economica tra Nord e Sud del mondo nell’adolescenza, e il servizio in realtà di emarginazione (i ragazzi diversamente abili dell’Associazione Sergio Piccin e poi, a Padova, il doposcuola con bambini immigrati e la visita alle loro famiglie: la mia seconda e forse più vera università). La scelta definitiva di abbracciare la vita religiosa è poi arrivata all’ultimo anno di università”.
La sua missione si intreccia con l’aiuto umanitario e su quello che si può fare per questi Paesi. Abbiamo capito che l’esportazione della democrazia non è la soluzione…
“Non può esserlo, tanto più visto il fallimento della stessa democrazia che abbiamo qui. Presuppone un livello di superiorità che va cancellato, perché alla base dell’aiuto c’è l’umiltà e il desiderio di voler condividere il cammino attraverso uno scambio reciproco. Bisogna dare empowerment alla gente del posto perché questi giovani hanno creatività, idee, vorrebbero studiare. San Daniele Comboni, il nostro fondatore, ci ha trasmesso questo profetico motto: “Salvare l’Africa con l’Africa” proprio perché siano gli stessi popoli africani ad essere protagonisti del loro unico ed inedito sviluppo. Per me l’essere missionari si rifà molto alla maieutica [arte di far nascere ndr]: aiutare la vita a nascere in ogni suo aspetto, in modo che ciascun individuo e popolo sviluppi i propri unici e irrepetibili doni”.
Ha passato ormai tanti anni in Africa ed è lì che fra poco tornerà. È diventata un po’ come una seconda casa?
“Sì, una seconda casa e famiglia! L’Africa ti prende il cuore! I miei colleghi mi dicono: ‘You are a white African!’”.
(Foto: per concessione di Marianna Santin).
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