I centri commerciali sono un luogo? Le riflessioni sui Non-luoghi della modernità

Ciclicamente tornano le discussioni relative ai centri commerciali di nuova edificazione. Al centro della questione negli ultimi giorni ci è tornato quello di Montebelluna, di cui si parla da almeno 20 anni e che ora si trova felicemente a due passi dal casello della nuova Pedemontana.

È lecito chiedersi se sia un progetto ancora valido nel 2021 o se non si dovrebbe piuttosto guardare ad altre occasioni di sviluppo per la città. C’è senz’altro da domandarsi anche se valga davvero la pena cementificare altri 25mila metri quadri di territorio e se magari non siano tutto sommato già sufficienti le altre 83 strutture della provincia, di cui 4 a Montebelluna.

Struttura più, struttura meno, di certo non si può negare che il centro commerciale susciti un certo fascino negli amministratori veneti e trevigiani. Ma vale lo stesso per i loro cittadini?

Ci sono casi più o meno riusciti ma sappiamo ormai bene che i centri commerciali sono molto frequentati, soprattutto dalle famiglie nei weekend, e che sono anche un luogo di ritrovo preferito dai ragazzini. Nella diatriba continua si sottolinea spesso che questi sottraggano clientela e vitalità ai centri storici.

Non a caso queste strutture nascono nell’America degli anni Trenta in luoghi desolati privi di nuclei storicizzati e solo negli anni Novanta prendono piede in Italia, Paese invece ricchissimo di (bei) centri storici innervati da solide relazioni sociali. Ma volendo fare l’avvocato del diavolo, perché spostare la gente dal centro storico al centro commerciale dovrebbe essere sbagliato?

Forse può sembrare strano, ma di questo tema si è interessata anche la filosofia. L’antropologo francese Marc Augè ha coniato attorno al 1992 il termine nonluogo (non-lieu in originale), categoria dentro la quale ha inserito anche i centri commerciali.

Ma cosa sono questi nonluoghi? Secondo l’antropologo, si tratta di spazi architettonici e urbani destinati ad essere usati senza alcuna appropriazione psicologica da parte dell’individuo, luoghi di passaggio e impersonali privi di radicamento storico, tradizionale, artistico, identitario; per tutte queste ragioni, essi non favoriscono l’interazione sociale e per questo sono contrapposti ai luoghi antropologici – i veri e propri luoghi – ovvero quelli che confermano e sviluppano l’identità degli individui. Tra questi nonluoghi Augè infila anche aeroporti, stazioni, supermercati e ipermercati, stazioni di servizio, alberghi, villaggi turistici, parchi divertimento e così via.

Augè stesso però nel corso degli anni ha valutato di ritirare i centri commerciali dal suo elenco di non-lieux e l’ha fatto principalmente perché l’offerta di queste strutture si è sempre più arricchita e l’architettura si è via via imbellita. Per questo motivo in molti, soprattutto tra gli adolescenti, possono farne effettivamente un luogo di incontro e socialità, dunque non uno spazio di mero transito deputato alla sola vendita di beni. Ma non è soltanto questo. È proprio vero che nel 2021 un centro commerciale può essere considerato un luogo dove l’individuo perde la sua identità? In un mondo sempre più globalizzato come il nostro, in realtà, è proprio il consumo a delineare un orizzonte identitario per l’individuo.

Siamo infatti dei consumatori – homo consumens direbbe un altro filosofo, in questo caso sociologo, molto famoso: Zygmunt Bauman – definiti proprio dal fatto che consumiamo beni e servizi in modo continuo. Inoltre spesso, soprattutto per i più giovani, è proprio il consumo e il possesso di determinati beni a costruire la propria identità. Ecco che il centro commerciale non fa altro che confermare e rafforzare l’identità consumistica degli individui moderni.

Chissà allora se ha senso lottare contro i centri commerciali: forse sono semplicemente il nuovo fulcro identitario della società che siamo oggi, lo specchio inevitabile degli individui che siamo, così come i centri storici lo sono per gli individui che eravamo.

(Fonte e foto: la Chiave di Sophia).
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