Biodiversità in campo, anche il tecnico faunista “amico” di Qdpnews.it al webtalk sull’agricoltura dopo il Covid-19

La biodiversità è a rischio e la perdita di natura mette in pericolo le società e la salute umana, come è stato ricordato anche giovedì 21 maggio 2020 da molti esperti e scienziati nel dibattito sulle cause della pandemia Covid-19 al quale ha partecipato anche il tecnico faunista Fabio Dartora (nella foto), protagonista di alcuni approfondimenti di Qdpnews.it sugli animali selvatici dell’Alta Marca Trevigiana.

Nel dibattito, che aveva come titolo “Biodiversità in campo” e che si poteva seguire anche grazie alla diretta nella pagina Facebook di NaturaSì, la più grande azienda del biologico italiano, si è parlato di quanto sia importante la natura anche nei nostri campi.

Le infrastrutture verdi, costituite da siepi, boschi, filari di alberi, corsi d’acqua e piccole zone umide, sono un riparo formidabile per centinaia di specie viventi animali e vegetali che sopravvivono specificamente in questi microhabitat preziosissimi per la biodiversità e in buona parte scomparsi dal paesaggio agricolo italiano e non solo.

Questa ricca biodiversità naturale nei campi è anche un aiuto a chi coltiva con metodi naturali e solo nelle 100 aziende agricole seminative delle 300 totali della rete NaturaSì gli spazi destinati a queste infrastrutture naturali coprono 3.600 ettari della superficie agricola.

Un piccolo patrimonio di biodiversità che dà rifugio a impollinatori e insetti che contrastano i parassiti delle piante alimentari, come la crisopa, che mangia gli afidi e vive nelle siepi.

Un’oasi naturale diffusa grande quanto 3.600 campi da calcio composta da boschi, stagni, alberi in cui sono riapparsi piante e animali che non si vedevano da tempo. Solo per citarne alcuni: il barbagianni, la testuggine palustre europea, la rarissima felce Marsilea.

Ma a guadagnarne non è esclusivamente l’equilibrio ambientale e naturale: solo il lavoro degli insetti impollinatori vale nei campi europei 15 miliardi di euro l’anno e garantisce la riproduzione dell’84% delle piante coltivate.

Secondo i dati dell’Ipbes, il panel di ricerca delle Nazioni Unite dedicato alla Biodiversità, tre quarti delle terre emerse sono stati significativamente alterati dall’azione umana. Tra le cause maggiormente impattanti sugli habitat ci sono l’agricoltura e l’allevamento industriali.

A livello globale, dal 1970 a oggi, il volume della produzione agricola è aumentato di circa il 300%, ma questo risultato è stato raggiunto senza preoccuparsi del suolo, dell’ambiente, dell’inquinamento e quindi della stessa salute umana.

E oggi, sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, paghiamo il conto anche a livello economico: il degrado del suolo ha ridotto del 23% la produttività della superficie terrestre globale e fino a 577 miliardi di dollari in colture globali annuali sono a rischio per la scomparsa degli impollinatori.

L’espansione dell’agricoltura industriale, insieme all’allevamento intensivo, è tra i principali motori della distruzione globale delle foreste per liberare suoli da destinare a colture e pascoli e i ricercatori stimano che il 31% delle malattie infettive emergenti, tra cui Hiv-Aids, Ebola e Zika e con estrema probabilità anche Covid-19, siano legate alla distruzione, degradazione e frammentazione di foreste e altri habitat naturali, secondo i dati riportati da Greenpeace.

Ma c’è un’agricoltura che può rallentare l’erosione degli ecosistemi e addirittura curarli, contribuendo anche attivamente alla conservazione delle specie e degli habitat: un’agricoltura più attenta alla natura e ai suoi equilibri.

(Fonte: Andrea Berton © Qdpnews.it).
(Foto: Fabio Dartora).
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