L’inferno di Silvio Collet nel Lager: le memorie del pievigino, raccolte dai tre figli, presto in un libro

Lui, nella tragedia collettiva, fu tra i più “fortunati”. Riuscì infatti a rientrare nella sua Pieve si Soligo e a raccontare poi, seppur parzialmente, aneddoti ed episodi del dramma vissuto ai tre figli Riccardo, Ranieri e Renzo.

I tre fratelli Collet, figli di Silvio: da sinistra Riccardo, Ranieri e Renzo

Gli stessi che ora (con la collaborazione del nipote Fabio), per onorarne la memoria, stanno accuratamente raccogliendo le testimonianza scritte (e non solo) lasciate dal padre, ex internato militare (IMI), per dare prossimamente alle stampe un libro che sia al tempo stesso un omaggio ma anche un monito per le future generazioni.

Una storia, quella di Silvio Collet, nato proprio a Pieve di Soligo il 30 ottobre 1918 (e morto il 13 ottobre del 1991), che oggi, 27 gennaio, Giorno della Memoria, assume un significato ancora più importante.

La storia

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, oltre 650mila Internati Militari Italiani (IMI) vengono infatti catturati e deportati nei Lager nazisti, dove Hitler li sottrae arbitrariamente alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra, sfruttandoli come forza lavoro per l’economia del Terzo Reich. Oltre 50mila internati perdono la vita nel corso della prigionia a causa
di malattie, fame, stenti e torture. Coloro che riescono a sopravvivere, però, ne restano inevitabilmente segnati per sempre.

Tra questi ultimi c’è proprio il “non collaborazionista” Silvio Collet, contadino orfano di padre (Riccardo Collet, prigioniero nella Prima Guerra Mondiale dopo la ritirata di Caporetto, morto per le ferite riportate due giorni dopo la nascita del figlio) e soldato di leva del distretto di Treviso.

Chiamato alle armi il 1° aprile 1939 nel 18º Reggimento Fanteria “Acqui”, con la qualifica di puntatore scelto mortaista, viene poi trasferito a Merano nel 1940 e inviato alla frontiera albanese-occidentale per partecipare alla campagna di occupazione greca, completata con l’evacuazione della guarnigione britannica dall’isola.

E’ durante questo periodo che Collet viene dichiarato disperso perché catturato dagli inglesi, trascorrendo sei mesi di prigionia (tra dicembre 1940 e maggio 1941), durante i quali sperimenta la fame più estrema. Rimpatriato da Creta, è ricoverato per un mese all’ospedale di Valdobbiadene a causa delle sue precarie condizioni di salute. Rientra in servizio a Merano e viene trasferito al 43º Reggimento Fanteria di Alba (Cuneo). Alla fine del 1941 viene congedato come orfano di guerra.

Ma il 25 febbraio 1943 viene richiamato alle armi presso il 72º Reggimento Fanteria e
successivamente trasferito al 60º Reparto Cavalleggeri come puntatore scelto mortaista. Subito dopo la proclamazione dell’armistizio viene catturato dai tedeschi e deportato ad Hanau, poco distante da Francoforte, dove arriva il 12 settembre 1943 a seguito di un viaggio disumano su un vagone piombato. Viene internato nello Stalag IX-B (con matricola 25330), tristemente famoso per essere uno dei peggiori Lager del Terzo Reich, dove prigionieri di diverse nazionalità vengono trattati in condizioni disumane.

Una foto di Silvio (primo a sinistra) con alcuni commilitoni

Ad attenderlo baracche di legno spartane, prive di comfort essenziali. Ogni struttura dispone di un solo rubinetto di acqua fredda e di latrine rudimentali collegate a pozzi neri svuotati raramente. Il riscaldamento è garantito per un’ora al giorno da una stufa alimentata con una razione minima di legna. I letti a castello triplo, spesso privi di materassi o coperte, sono infestati da parassiti.

Le razioni di cibo sono scarse: i prigionieri sopravvivono a malapena con brodi preparati con erbe, scarti di cucina e, nelle migliori occasioni, 30 grammi di carne di cavallo. Più volte agli Internati Militari Italiani (IMI) dello Stalag IX-B venne però proposto di diventare “liberi lavoratori” al servizio del Reich.

“Malgrado le ripetute minacce, nostro papà e i suoi compagni si rifiutarono di firmare, andando incontro a vessazioni di ogni tipo e al dimezzamento delle razioni – ricordano i figli – La corrispondenza con la famiglia (fortunatamente sopravvissuta insieme a molti altri cimeli della prigionia) era gestita dalla Croce Rossa Internazionale ma la censura tedesca gli impediva di descrivere realmente i soprusi e le umiliazioni subite, costringendolo a riportare
solamente i lati positivi della prigionia: essere vivi, recitare qualche preghiera, partecipare a qualche messa e, in casi straordinari, uscire dallo Stalag per recarsi al cinema di Hanau”.

Tutto veniva meticolosamente annotato da Silvio nei diari tenuti durante la prigionia, documenti oggi quantomai preziosi per gli eredi e, presto, per tutta la comunità.

Il 24 settembre 1943 Collet viene poi assegnato alle Arbeitskommando 1000, presso l’imponente fabbrica di pneumatici Dunlop di Hanau (vicino Francoforte sul Meno) dove vi lavora per oltre un anno. Nel dicembre 1944 le prime avvisaglie dell’imminente crollo della Germania annunciano la liberazione: pesanti bombardamenti colpiscono la fabbrica e Silvio viene trasferito in aspettativa presso la caserma di Eger, in Repubblica Ceca, per poi essere successivamente inviato a Pilsen (Boemia Orientale).

Liberato dall’Armata Rossa l’8 maggio 1945, rientra smagrito e segnato dagli orrori della guerra transitando per Ulm e Bolzano, da dove, con mezzi di fortuna, riesce ad arrivare alla stazione ferroviaria di Cornuda e da lì si incammina a piedi fino a Pieve di Soligo, mettendo fine alla sua odissea durata oltre sei anni.

Gli aneddoti

Una raccolta di memorie e testimonianze, contrappuntate da alcuni significativi aneddoti che uno dei figli di Silvio Collet, Ranieri, ha voluto condividere con noi di Qdpnews.it. E’ questo il “libro” a cui stanno lavorando gli eredi del pievigino, Croce al merito di Guerra, che potrebbe vedere la luce entro la fine di quest’anno.

“Lui, nel tempo, ne condivideva alcuni con noi, risparmiandoci di sicuro quelli più scabrosi o dolorosi – racconta proprio il figlio – Oggi mi pento di non avergli chiesto di più!”.

Un aneddoto è quello di quando Silvio, venne preso prigioniero in Grecia da un soldato del posto che gli aveva puntato la canna del fucile al petto, proprio all’incrocio del bavero del pastrano che indossava (era inverno). “Mio padre se ne stava lì con le braccia alzate
quando, subito dopo, un graduato (lui pensava fosse ad un ufficiale), ha battuto la mano sulla spalla del soldato col fucile facendo segno a lui di andare avanti – rammenta Ranieri – Papà è quindi è ‘sgattaiolato’ raggiungendo il gruppo dei prigionieri italiani li vicino”.

Un altro aneddoto, quello della “suddivisione della pagnotta”, veniva solitamente raccontato ai figli piccoli quando non volevano finire di mangiare tutto quello che c’era nel piatto.

“Era la razione giornaliera da intingere nella ‘brodaglia’, così la chiamava – prosegue il figlio – Brodaglia che veniva a volte ‘insaporita’ dalle bucce di patata rubate notte tempo, a turno senza farsi vedere, nel ‘letamaio’ del campo”. La suddivisione della pagnotta veniva fatta mediante il taglio in fette che dovevano essere, in linea teorica, millimetricamente suddivise in parti uguali.

“Non ricordo ogni quanti prigionieri davano una pagnotta – conclude Ranieri – Sta di fatto che mio padre raccontava che uno di loro preparava dei bastoncini/pezzi di paglia di diverse misure, tutte differenti, per il numero dei ‘beneficiari’ della pagnotta. Questi pezzetti, che erano nascosti nella mano (ne usciva solo un pezzo dall’altezza tutta uguale), venivano poi scelti a turno e casualmente dai ‘beneficiari’. Chi prendeva il pezzettino più lungo aveva diritto di scegliere per primo la fetta e via via tutti gli altri. E’ evidente che il primo prendeva la fetta più grande e cosi via, L’ultimo, con il pezzettino più corto, aveva il poco ambito compito di tagliare, millimetricamente, la pagnotta. Ovviamente, avendo il pezzettino più corto,  si trovava con la fetta più piccola. In compenso però aveva diritto alle briciole”.

E ai figli che ascoltavano questa storia, comprensibilmente, passava subito la voglia di fare i “capricci” e non finire quel che avevano (fortunatamente) dentro al piatto.

(Autore: Alessandro Lanza)
(Foto: per gentile concessione della famiglia Collet)
(Articolo e video di proprietà di Dplay Srl)
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