Pianista-clavicembalista, direttore d’orchestra, per oltre trent’anni al lavoro nel teatro La Fenice di Venezia, dove ha potuto conoscere e collaborare con i più importanti musicisti contemporanei, Carlo Rebeschini (nelle foto) dirigerà lunedì 14 maggio l’oratorio Passio Domini Nostri Jesu Christi nel duomo di Pieve di Soligo, composto dal compositore e amico don Mansueto Viezzer, scomparso nel 2009 all’età di 84 anni.
Sacerdote e musicista, dal 1960 al 1980 cappellano all’ospedale di Soligo, il suo paese natale, e poi nella casa di riposo “Casa per anziani” a Pieve di Soligo, don Mansueto ha lasciato un ricordo indelebile in chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, non solo per talento e sensibilità, ma anche per i contrasti che hanno caratterizzato la sua forte personalità e il suo grande talento.
A darne un ricordo in vista del concerto di lunedì sera è proprio il maestro Rebeschini, che tra una prova e l’altra ha trovato il tempo di fare visita alla redazione di Qdpnews.it.
Che tipo di compositore era don Mansueto?
Wolfango Della Vecchia, che è stato maestro di entrambi, aveva subito colto la questione: diceva che la musica di don Mansueto era troppo moderna per chi ama la musica tradizionale e troppo tradizionale per chi ama la musica moderna. Don Mansueto ha avuto una formazione classica,ma è vissuto in un’epoca in cui la musica sacra ha smesso di essere moda ed è entrata in crisi, e con essa anche la sua didattica. Gran parte della sua opera, infatti, è dovuta all’autoproduzione, ed era lui a stampare le partiture e ad ingaggiare i musicisti, tra l’altro pagandoli sempre: penso che nessuno sia mai riuscito a donargli gratuitamente la propria opera. Le composizioni che gli furono commissionate, invece, vennero pagate meno di quello che valevano, tanto era il suo desiderio di darsi sempre da fare per la musica. Ha sempre vissuto la musica come fosse un’attività artigianale, probabilmente per le sue origini contadine. Scriveva dalle quattro alle sei ore al giorno, come se comporre fosse quasi un’esigenza fisica.
Lei fu molto amico del maestro, qual è il suo ricordo personale?
Una persona eccezionale, sincera, buona e generosa. Ruspèga, anche, il che lo ha spesso limitato nei rapporti sociali, dato che ci andava sempre giù duro e diceva sempre ciò che gli passava per la testa. E in questo mondo di diplomazia nel quale viviamo, spesso questo comportamento è stato visto come un difetto.
Come si avvicinò don Mansueto alla musica?
Il padre dirigeva il coro di Soligo e lo coinvolse fin da piccolo, tanto che dopo la direzione del coro passò a lui. La sua famiglia era di origini contadine, un mondo al quale don Mansueto fu sempre molto legato e che ha portato anche nella sua opera e nel suo modo di lavorare. Ci teneva, infatti, che le sue composizioni, anche solo per un breve passaggio, potessero piacere a tutti, anche alla signora che magari non sa nulla di musica. Questo tipo di approccio si notava anche nel rapporto con gli esecutori, che era sempre libero e spontaneo. Lui si fidava dei musicisti, tanto è vero che le sue partiture riportano poche indicazioni precise su come vada suonato un brano.
A proposito di partiture, quelle realizzate da don Mansueto stupiscono per bellezza e per l’attenzione rivolta anche all’estetica.
Faceva decorare le sue partiture dall’amico don Piero Zaros, che era cappellano all’ospedale di Vittorio Veneto. Scriveva prima su dei lucidi, poi ricopiava su carta, un’operazione lunga nella quale don Mansueto rivedeva spesso le sue composizioni. Poi le faceva decorare, rilegare, in maniera anche importante, e stampare. La nostra associazione è riuscita a recuperare tutti i lucidi di 105 numeri d’opera, che ora sono conservati in un archivio digitale.
Dell’oratorio che dirigerà lunedì cosa ci può dire?
Si tratta di una Passione di Cristo, che ripercorre le ultime vicende della vita di Gesù. Si tratta di un’alternanza di canti gregoriani, musica dodecafonica e coro, con riferimenti antichi ed ecclesiastici. La Passio è l’opera più importante di don Mansueto, perché rappresenta la vera innovazione nel suo percorso musicale, ed è andata in scena per la prima volta in abbazia a Follina nel 1982.
Cosa rimane dell’opera del maestro Viezzer?
Intanto rimane, che non è poco. Rimane in attesa di un momento nel quale si potrà farla riscoprire. Ogni periodo ha il suo gusto e la sua critica, ma se una cosa è valida alla lunga la spunta. Anche Bach, all’inizio, non ebbe successo ed è stato riscoperto solo alcuni decenni dopo la sua morte.
Lei come conobbe don Mansueto?
Me lo fece conoscere Luigina Barberis, e all’inizio non mi piacque perché urlava troppo. All’epoca avevo appena finito il conservatorio e pensavo non mi servisse approfondire la composizione. Poi cambiai idea e mi iscrissi alla scuola Toti Dal Monte per ricevere le sue lezioni, ed ebbi modo di conoscerlo meglio e di stringere con lui una grande amicizia. Era sempre capace di coinvolgerti e di tenerti sveglio, con un atteggiamento aperto e rilassato. Più che nel dettaglio, la sua personalità si coglieva nel complesso: era una persona tradizionalista a parole, ma libero nei fatti.
Lunedì 14 maggio nel duomo di Pieve di Soligo alle ore 21 (ingresso libero) Carlo Rebeschini guiderà 150 esecutori nell’esecuzione del lavoro sacro. Con lui il quartetto vocale composto dai soprani Hyeonjeong Koo, Elisabetta Geronazzo, Marcella Campagnaro e dal mezzosoprano Lucia Zigoni, i cori Santa Cecilia, Una voce e San Gallo Mansueto Viezzer guidati da Paolo Piana, Monica Barbiero e Florindo Spinazzè con la Ianus Orchestra e l’organista Roberto Padoin.
La maggior parte degli esecutori è da annoversarsi tra allievi, ex interpreti e amici di don Manuseto. L’orchestra è composta quasi integralmente da strumentisti del Teatro La Fenice di Venezia. Con loro il compositore monsignore sviluppò negli anni un rapporto artistico quasi esclusivo.
(Intervista a cura di Edoardo Munari © Qdpnews.it).
(Foto: Qdpnews.it ® riproduzione riservata e per gentile concessione di Gianni Spina).
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