Da bambino promise di conservare per sempre l’epigrafe di un partigiano torturato e ucciso: domenica coronerà il suo giuramento

Nella tarda estate del 1944, mentre le colline della Valcavasia si tingevano dei colori dell’autunno, lungo le strade e le contrade dei paesi si respirava un’atmosfera densa di sospetto e di paura: la confusione dovuta a una guerra interminabile, a un’occupazione inaspettata, avevano oramai scolorito le bandiere e le uniformi, le medaglie e i documenti d’identità.

Poco importavano a quel tempo le ragioni e gli ideali politici, la vendetta o la pietà, il cane delle pistole o le molle degli “schmeisser” erano sempre tesi, pronti a scattare contro chiunque si fosse palesato in quel momento come “il nemico”.

In un clima di tensione e sfiducia come questo, con la paranoia sia per le spie che per i briganti, possiamo immaginare come le osterie e le trattorie potessero presentarsi a quel tempo come mercati all’ingrosso di aneddoti e mezze verità, specie davanti agli occhi sognanti e alle orecchie interessate di un bambino come Vittorio.

La Trattoria Basar (Bazar), dove abitava, era un luogo frequentato, dove le storie venivano e sparivano, assieme alla gente di passaggio.

A quel tempo Leo Menegozzo, giovane sottotenente classe 1921 originario di Castelfranco ma residente a Possagno (la famiglia si era trasferita lì per lavoro), faceva parte della Brigata partigiana “Italia Libera Archeson”: i Cecconi, ovvero la famiglia da parte di sua madre, erano possessori della ditta che si occupava della gestione delle linee di trasporto pubblico su ruota a Castelfranco Veneto.

Aveva frequentato con successo il Corso Ufficiali in Valle d’Aosta ma, dopo l’8 settembre 1943, non aveva voluto aderire alla RSI: era fuggito nei boschi, seguendo le tracce del maggiore partigiano Edoardo Pierotti.

In una grigia giornata di settembre, con i rastrellamenti dell’Operazione Piave in corso su tutto il Monte Grappa, tentò assieme ai compagni Gino Ceccato e Ferruccio Silvi di superare un posto di blocco a Cavaso, ma venne fermato e arrestato dai nazifascisti. Lo trascinarono fino al campanile della Pieve dove, sotto le campane – secondo gli storici locali – Menegozzo venne “seviziato e torturato” con crudeltà, per poi venire riportato al suo paese d’origine, a Possagno. Non fu per pietà: il 24 settembre i nazifascisti diedero fuoco alla sua casa, vicina all’attuale piazza, e lo impiccarono a un palo lì vicino.

Ai genitori, costretti ad assistere a quell’orrore, venne proibito di toccare il corpo: sarebbe rimasto lassù, a penzolare, come monito. Passarono dei giorni prima che venisse finalmente tirato giù e sepolto, senza alcuna cerimonia e nel cimitero comunale. Passò un anno esatto dalla morte del giovane tenente, il 24 settembre 1945, quando venne fatta organizzare una messa di suffragio a cura del CLN.

Il rito si tenne nel Tempio del Canova e le epigrafi di Menegozzo vennero diffuse nei locali della zona. Una di quelle epigrafi (a quel tempo si chiamava “foglio funebre”) finì anche alla Trattoria dove il giovane Vittorio Gatto, impressionato da quella storia e da quell’immagine come da nessun’altra prima d’ora, decise di conservarla come una reliquia per sempre.

Il prossimo 5 novembre Vittorio, che oggi ha raggiunto un’età avanzata, rispetterà ancora una volta la sua promessa – anzi, la coronerà per sempre – cedendo di persona la preziosa epigrafe originale, che mantiene ancora sul retro la scritta “Trattoria Basar (traslitterazione dialettale di bazar)” al Comune di Possagno, che rinnoverà il voto di mantenerne memoria per sempre.

L’iniziativa è stata possibile grazie alla signora Valentina Magrin (nipote di Tina Anselmi), che ha contattato il professor Giancarlo Cunial. A ricevere l’epigrafe sarà presente il vicesindaco Maura Baron.

(Foto: per gentile concessione di Giancarlo Cunial e di Vittorio Gatto).
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