Possagno, la storia della casera diventata chiesa dopo la Guerra e poi colonia per i ragazzi

A Possagno, passata la villa dei Padri e intrapresa la strada che sale al Palón, ci sono sempre state una decina di casère, ciascuna con una piccola abitazione del gestore, la stalla per gli animali e la tiéda (fienile) per il foraggio. La memoria divaga e si tra gli abitanti del posto era normale ricordarle associandole a nomi, attività o personaggi dell’epoca.

La parola casèra deriva dal latino “càseus”, che significa formaggio. D’estate, infatti, durante la stagione dell’alpeggio, i proprietari delle casere portavano le bestie dalle stalle del paese a pasturarsi nei prati di quella erta costa, tra Possagno e Cavaso, e facevano, col latte che moldévano, il formaggio (e altri latticini) che lasciavano stagionare nel vicino casarìn.

I proprietari delle casere facevano un po’ di tutto in montagna: erano segadóri (fienaróli) quando falciavano il foraggio nelle erte non raggiunte dagli animali; erano vaccari quando accompagnavano le vacche dalla pianura alla montagna, in primavera, e dalla montagna alla pianura d’autunno.

Erano infine casàri quando facevano formaggio, puìna, butìro e altri latticini. Ci si chiedeva sempre che differenza ci fosse tra malgari e casari, cioè tra le attività che si facevano in malga e quelle che si facevano in casèra e non si riusciva mai a trovarci significative diversità.

Quelle casere hanno vissuto i drammi della Grande Guerra nel 1918, quando colpivano quelle erte le granate sparate oltre il crinale e percorrevano quei valloni le teleferiche che trasportavano munizione, viveri, obici e feriti.

E nel nero settembre 1944, quando cominciò il bieco rastrellamento nazifascista sul massiccio del Grappa, tornarono minacciose le bocche di fuoco dai colli di Castelcucco a sparare bombe su queste rive coll’intento di stanare i partigiani che già si erano indaregati tra questi casarini e queste tiede.

Dal paese, la gente vedeva qui e là levarsi volute di fumo denso e continuo e si chiedeva se avessero colpito la casera dei Beneti o quella dei Viola.Erano giorni di apprensione, di scoramento, di trepidazione.

Don Teodoro, parroco da più di trent’anni a Possagno, ormai immobile e costretto su una sedia, fece un voto alla Madonna: se il paese fosse stato risparmiato dalla furia della guerra, si impegnava a costruire una chiesa alla Madonna per ringraziarla dello scampato pericolo.

E così fu: nel 1948, acquisita la casèra dei Viola, vi fece costruire una cappellina sopra l’ex fienile e la titolò alla Madonna come aveva promesso, perché anche a quei tempi i preti erano sempre di parola e non si permettevano di scherzare né con la Madonna né coi santi.

In quella casera, che si cominciò a chiamare Villa della Madonna alle Masarolle (ma la gente la chiama ancora oggi e semplicemente Villa Viola), la parrocchia cominciò a organizzare la colonia estiva per i ragazzi del paese (che fino a prima della Guerra si faceva, invece, nella casera de Caldàn) e tuttora lassù si fanno i campeggi estivi.

Sull’altare della chiesetta, l’artista possagnese Luigi Vardanega Tognatèr ha dipinto il voto di don Teodoro alla Madonna e in questi giorni di ottobre 2021 è stato messo in opera il pannello che completa l’altare, tra il dipinto e la mensa: Ivo Zulian ha fatto i pannelli di legno con una porta vecchia, Sara Cunial ha inciso i simboli dei quattro Evangelisti con il pirografo.

Ai residenti di Possagno salgono alla memoria molte di quelle casere di un tempo, quella che avevano i Lorenzi de Paetòt sulla valle della Gheda e che poi acquistò (1921) la famiglia di Mario Negro Caldàn (che in paese abitava sulla curva dell’acquedotto, in Sant’Albino), il gruppo delle casere poste sulla collinetta tra Possagno e Cavaso: quella dei Vardanega detti Beduìn (tra le più importanti famiglie di fornasieri di Possagno che la acquistarono negli anni sessanta del secolo passato da un Zanotto di Fonte).

Per qualche anno Giovanni Vardanega cargò montagna e poi però abbandonò l’attività e si dedicò solo al laterizio; la vicina casera dei Zanotto detti Santoro da Cavaso e poco più su la cosiddetta “Casa BIanca” sempre dei Zanotto ma del ramo di Sergio Santoro (che ancora oggi abita a Cavaso a mezzogiorno della borgata di Caldoje); poco distante, ma già in territorio di Cavaso, la casèra di Tilio Vardanega, quello che da una vita fa tubi e manufatti in cemento; la casera sul Barconzhèl di Toni Foggiato che abita a Capovilla di Cavaso e che alla fine del secolo scorso fu sindaco del paese; la casèra de Fire, della famiglia Biron (quella della Cecilia tabachina) che ha cargato montagna fino a pochi decenni fa: c’è ancora la stalla con fienile, crìpia e gàtol;poco distanti dai Fire, ma dall’altra parte della strada,le casère che si raggiungono sul vallone.

Ce n’erano due o tre: le casere di Toni e della Flora Rizzotto che tutti chiamavano “le casère del Poz” (perché aveva uno straordinario pozzo da vena, da cui si attingeva un’acqua freddissima anche d’estate, mentre tutte le altre casère per dissetare le bestie e i cristiani attingevano dai depositi di acqua piovana) e la casera dei Rovèer detti “Sède” (ormai fatiscente) che abitano ai Carli, l’ultima borgata di Possagno ai confini con Cavaso; la casera alle Masarolle dei Viola (di Gigi e Checo Campaner detti Viola, quelli che in paese abitavano sulla Pastega vicino alla Galleria di Canova); ancora più su, la casèra dei Beneti (che in paese abitavano nel colmello dei Biron poco distante dal Tempio e a ridosso della villa dei Forcellini);la casèra dei Moretto, detti “Gamba” a un tiro di schioppo da Castel Cesìl, la casèra dei Zhipriani poco sotto la Croce del Palón.

Nelle foto, il pannello in legno decorato da Sara Cunial, sotto la tela di Luigi Vardanega Tognater, nella chiesetta della Villa della Madonna alle Masarolle (Villa Viola), a Possagno.

Il dipinto era stato collocato sull’altare della chiesa di Sant’Antonio alle Fornaci (che infatti era nata dopo la Seconda guerra mondiale come ringraziamento per lo stesso voto di don Teodoro Agnoletto) e solo dopo il 1957 (quando venne collocato sopra l’altare della chiesetta il bassorilievo in terracotta di Pio X, di Marco Bisi) venne trasferito in Villa Viola.

Nella terza foto, la facciata di Villa Viola inquadrata da dove si elevava il grande faggio antistante la facciata.

(Fonte e foto: Giancarlo Cunial).
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