Torneranno a casa prima di Natale le gemelline siamesi che sono state separate da un gruppo di medici lo scorso mese di settembre al Great Ormond Street Hospital di Londra, uno dei più importanti centri ospedalieri pediatrici al mondo. Alla guida del pool di professionisti che ha eseguito l’operazione c’era il medico di Santa Lucia di Piave Paolo De Coppi.
“Queste gemelline erano unite per la maggior parte del busto – spiega De Coppi – e avevano in comune molti organi addominali che è stato necessario dividere”.
De Coppi, laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli studi di Padova nel 1997, vive a Londra dal 2005 ed è primario di chirurgia pediatrica oltre che direttore di tutto il reparto di chirurgia dell’ospedale londinese.
Il 7 gennaio 2007 De Coppi, Anthony Atala (direttore del Laboratory for Tissue Engineering and Cellular Therapeutics del Children’s Hospital di Boston) e il suo pool annunciarono al mondo una scoperta che potrebbe rivelarsi fondamentale in campo medico: si possono estrarre cellule staminali anche dal liquido amniotico, evitando cosi di estrarle da embrioni umani provocandone la distruzione.
Dottor De Coppi, parliamo della sua ultima grande operazione: la separazione chirurgica di due gemelline siamesi. Come si è svolto questo complesso intervento?
“La separazione chirurgica delle gemelline siamesi si è svolta con un’operazione che ha visto la presenza di un’équipe che comprendeva urologici, chirurghi plastici, chirurghi ortopedici e noi di chirurgia generale. In questo caso specifico le due gemelline erano unite per la maggior parte del busto e avevano in comune molti organi addominali che è stato necessario dividere”.
Quante persone hanno partecipato all’operazione?
“Per operazioni di questo tipo sono necessarie circa 30 persone. Oltre ai chirurghi dei vari reparti (quelli nominati sopra ndr) erano presenti anche quattro anestesisti e circa quindici infermieri. Interventi di questo tipo vengono fatti da professionisti che hanno molta esperienza in questo genere di operazioni e di chirurgia complessa”.
Come ci si prepara a interventi di questo genere?
“Innanzitutto bisogna valutare se le bambine possono sopportare questo tipo di intervento. Questa è una valutazione importante. Se ad esempio il cuore della bambina è malato, è difficile che questa possa affrontare un’operazione simile. Le altre cose importanti da valutare sono i risultati di tac e risonanze magnetiche che ci permettono di valutare bene la disposizione degli organi, in quanto possono essere dislocati in maniera diversa rispetto alla normalità”.
Il vostro ospedale non è nuovo a questo tipo di interventi: quanti ne fate all’anno?
“Da quando è stato fondato questo servizio abbiamo valutato 36 coppie di gemelli siamesi, e di queste ne abbiamo separate 27. Altre non le abbiamo potute separare perché erano nate con un cuore solo o perché uno dei due cuori era malato. Di questi casi ne valutiamo almeno uno all’anno e quindi sappiamo come gestirli, dalla preparazione all’intervento. La cosa fondamentale è comunque la riabilitazione, che comprende anche una serie di interventi da eseguire dopo la separazione”.
Lo sviluppo di nuove tecnologie come aiuta in questo campo?
“Una delle cose che abbiamo introdotto con l’intervento di separazione di queste gemelline è stato l’utilizzo della realtà aumentata. Questo nuovo tipo di tecnologia ci ha permesso di “navigare” all’interno del corpo e capire dove separare un organo dall’altro”.
A intervento riuscito, quali sono state le sue emozioni?
“L’intervento è stato molto intenso ed è durato circa 18 ore con piccoli intervalli di rotazione. Il momento più emozionante è sicuramente quando si separano le gemelline e vanno in due lettini diversi, in modo da poter continuare la chiusura e la sistemazione degli organi. In questo caso ci sono due équipe che lavorano sulle due piccole separatamente”.
Facciamo un passo indietro nel tempo: lei assieme a dei colleghi ha scoperto la presenza di cellule staminali nel liquido amniotico. Ci racconta come ha vissuto questo importante traguardo?
“Questa è una delle ricerche che ho condotto quando ero a Boston, che ho continuato a Padova e che continuo tuttora a Londra. La prospettiva – speriamo in un futuro non troppo lontano – è quella di utilizzare queste cellule per ricostruire organi e tessuti per bambini a cui è stata diagnosticata una malformazione prima della nascita”.
In molti la definiscono un “cervello in fuga” dall’Italia. Crede che sia possibile un suo ritorno in patria nei prossimi anni?
“Il discorso dei cervelli in fuga mi fa sorridere perché è una questione su cui si discute da vent’anni. Il problema dell’Italia non sono i cervelli in fuga, ma i cervelli che non arrivano. Non si riescono ad attirare persone con certe specializzazioni perché non ci sono le condizioni per farle lavorare bene. Pensi che io sono diventato primario a Londra a 34 anni. Difficile che un medico lo diventi a questa età in Italia”.
Come valuta la medicina Italiana e in particolare quella veneta?
“La medicina italiana rimane comunque a buoni livelli. Soprattutto quella veneta dove ci sono persone che si sono preparate in Italia o all’estero e hanno portato innovazione. Io sono stato fortunato di poter studiare a Padova, uno dei centri migliori in Europa per la formazione e per la ricerca”.
(Foto: per concessione del dottor Paolo De Coppi).
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