Giancarlo Saran è autore di buone scritture. Quando non è impegnato con la sua professione ufficiale (medico dentista a Castelfranco Veneto), rivela la profonda passione per la cultura gastronomica firmando sapidi articoli per il quotidiano “La Verità”, “Papageno”, “Spirito di Vino”, “Monsieur”, “Arbiter” e “Civiltà della Tavola”.
Rotariano e Accademico della Cucina, è membro del Centro Studi nazionale “Franco Marenghi”, il polo culturale dell’Accademia, da cui muovono le linee guida della sua attività. Insieme ad altri competenti buongustai di preparazioni suine, due anni fa Saran ha dato vita all’Ingorda Confraternita del Museto, variegata “combriccola” che ha come quartier generale la “Caneva dei Biasio” (davanti al santuario delle Cendrole), capitanata da Matteo Guidolin, sindaco di Riese Pio X. La sua prima finalità è tutelare la storia e la tradizione dell’insaccato fatto col muso di maiale.
Nel novembre 2019 la Confraternita ha lanciato “Porco Mondo”, il festival “suin generis” composto da incontri e degustazioni, seguito, il 17 gennaio 2020, dalla seconda edizione del concorso “Museto d’oro”, che ha attirato norcini da tutta la provincia di Treviso e da mezzo Veneto, riconoscimento che valorizza le piccole produzioni artigianali locali.
A causa dell’emergenza Covid-19, il festival invernale “Porco Mondo” salta a pie’ pari nel calendario 2021. Intanto, si guarda alla possibilità di organizzare, a gennaio, la terza edizione del “Museto d’oro”, nell’ambito del raduno ufficiale annuale dei soci della Confraternita.
Il convivio si tiene solitamente il 17 gennaio, giorno in cui si festeggia Sant’Antonio Abate, l’eremita egiziano rappresentato con un porcellino al seguito, patrono dei macellai e dei norcini. A giudicare il miglior musetto è una composita giuria di esperti, di cui fa parte anche Giancarlo Saran, che ci racconta le basi della diffusa popolarità dell’insaccato, che le trattorie e osterie trevigiane d’inverno hanno sempre in menu o nella vetrina dei cicchetti tipici.
E’ rito antico, nelle nostre terre, quello di fare la “festa” al “Re maiale” nei giorni d’autunno, attorno a San Martino, oppure a gennaio /febbraio quando l’ingrasso arriva all’apice. Uno dei prodotti più succulenti che se ne ricava è il musetto. A cosa si deve la continua popolarità di questo insaccato, proposto in tante trattorie e osterie, contro ogni attuale tendenza salutistica?
E’ uno dei piatti identitari del nostro nord.est. Attendeva solo che vi fosse una Confraternita a lui dedicata, fondata “laicamente” nel paese di Papa Sarto, Riese Pio X, con l’obiettivo di rivalutarne il valore e l’identità locale legate a tradizioni che non devono scomparire. Viene preparato con tagli di scarto del maiale, in particolare quelli del muso, cosa che lo differenzia dal cotechino, conciati poi con spezie quali cannella, pepe, noce moscata, e quant’altro segreti e tradizione familiare abbiano perfezionato nel tempo.
Del maiale si utilizza tutto, compreso il muso. Giuseppe Maffioli scriveva di sbollentare e disossare una testa di maiale, lasciando a parte solo la lingua, dopo avere tolto ogni setola. Consigliava il consumo del musetto non oltre il sesto mese, comunque sarebbe stato buono anche a due giorni dall’insaccamento. Come si gusta al meglio?
Nel Veneto la sua “morte” è sopra fette di polenta abbrustolita, come con la purea di patate e il cren, una preparazione a base di rafano, il cui retrogusto acido e leggermente piccante fa da ottimo contraltare alla grassa struttura del musetto. Un tempo il cren veniva usato per stimolare l’appetito e, infatti, assieme a lui, una fetta di musetto tira l’altra. Altra variante con cui si gusta il musetto sono le verze sofegae, dette così perché vanno sottoposte a lenta cottura dopo le prime ghiacciate, così da risultare appassite (cioè sofegae).
Anche nel vicino Friuli il musetto rappresenta uno dei sapori più apprezzati della cucina popolare.
In Friuli tradizione vuole che il musetto vada abbinato, oltre che alle verze, anche alla brovada, una lavorazione delle rape locali particolarmente intrigante. La conservazione delle rape sottoaceto era già conosciuta dai romani, tanto è vero che ne parlava Apicio, in quanto Aquileia, dopo Roma, era una delle principali città dell’Impero. Vengono messe a macerare entro grossi tini di legno assieme alle vinacce, quindi dopo la vendemmia, acqua e sale, pressate con un coperchio di legno e pietra per almeno un mese, per ottenere un’adeguata fermentazione. Da bianche con il colletto viola assumono il colore rosato delle vinacce stesse. A questo punto si grattuggiano con il gratì, un arnese di legno con lame metalliche. Messe a cuocere lentamente con pesto di lardo e cipolla, sono pronte quando assumono un colore marrone di castagna. Si maritano poi al meglio con il musetto. Un bene e una tradizione preziosa, tutelata da apposita disciplinare Dop. In Carnia, invece, dove non è possibile la coltivazione della vite, la brovada, tradizionalmente, viene preparata con le pere locali, dette di san Luigi.
(Fonte e foto: Cristina Sparvoli © Qdpnews.it).
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