La prima edizione del festival “Treviso Città per le donne” è stata l’occasione per riflettere su quanta strada ci sia ancora da fare in tema di diritti per la sfera femminile, specialmente nel campo del lavoro, costellato da contratti e condizioni di lavoro poco appropriati oppure dalla scarsità di opportunità e progetti rivolti a profili femminili dall’elevata preparazione, anche accademica.
Un vero e proprio calendario di appuntamenti ha composto la manifestazione, andata in scena dal 5 al 7 maggio e voluta dalla città di Treviso, dalla commissione Pari opportunità comunale e dal progetto Donne Veneto: tre realtà che non hanno nascosto il desiderio di voler replicare il festival anche il prossimo anno, durante il quale poter proporre delle “soluzioni concrete” in relazione alla condizione delle donne.
Gli aspetti citati sono stati in particolare al centro dell’incontro “Donne e lavoro: numeri, storie e visioni”, che si è tenuto nel pomeriggio di venerdì 6 maggio, nella sala consiliare di Palazzo dei Trecento, in piazza Indipendenza (già piazza delle Donne) a Treviso. Un dialogo pubblico moderato da Alessia Salvador, del coordinamento Donne Pari Opportunità e Politiche di genere della Cisl Belluno-Treviso.
Il quadro ricostruito dai vari relatori, a proposito del binomio donne-lavoro, è stato tutt’altro che confortante: 1 donna su due, dai 20 ai 50 anni, non ha un impiego oppure è costretta ad abbandonarlo per assenza di forme di supporto alla famiglia.
In sostanza, l’espressione “c’è ancora tanto da fare” che si sente spesso citare per la situazione delle donne, specialmente nel campo del lavoro, è tutt’altro che un’utopia o un semplice modo di dire, e a dimostrarlo sono i numeri e le analisi statistiche, come illustrato da Monica Billio, docente ordinario in Econometria all’Università Ca’ Foscari di Venezia, la quale ha ben sottolineato quanto penalizzare lavorativamente una donna condizioni tutta una serie di aspetti sociali e personali, privando il motore economico di un importante tassello.
Non è mancato un riferimento alla cattiva pratica di diverse aziende delle “dimissioni in bianco”, a cui vengono sottoposte le donne lavoratrici, specialmente nel loro momento di maggior debolezza, ovvero lo stato di gravidanza.
Allo stesso modo, come ribadito in maniera diversa dai vari relatori, il problema è alimentato da quella che sarebbe definibile come arretratezza culturale, che porta a vedere con sospetto coloro che aspirano a voler raggiungere dei traguardi personali: una tendenza che si registra specialmente all’interno delle aziende, dove manca la lungimiranza di incentivare e incoraggiare quante in possesso di una preparazione culturale e scolastica elevata.
Nel 2020 le donne occupate erano il 52,7%, a fronte di una media europea pari al 66,5%, con una minor opportunità di fare carriera: in sostanza, l’Italia è il fanalino di coda per occupazione femminile a livello europeo. Sullo scenario mondiale, il nostro Paese si piazza al 63esimo posto per parità di genere, mentre nel 2021 si trovava addirittura al 76esimo. In termini di natalità, l’Italia si trova all’ultimo posto in Europa: spesso le donne si licenziano anche dopo il primo figlio, per mancanza di servizi di supporto alla genitorialità e la difficile conciliazione tra la sfera personale con quella professionale.
Non va meglio per quanto riguarda il gap salariale, una discrepanza tra uomo e donna quantificabile al 16,5%, che si traduce in una differenza di oltre 97 mila euro in 40 anni di lavoro: a una maggior preparazione, anche accademica, dovrebbe corrispondere un maggior livello salariale e un consistente volume di opportunità, ma ciò non avviene all’interno delle aziende, dove le “donne vengono sottopagate e marginalizzate nonostante l’elevata preparazione”, secondo le analisi emerse ieri pomeriggio.
Le previsioni indicano che soltanto nel 2074 si potrà vedere una parità di retribuzione tra uomo e donna.
A tutto ciò non ha giovato l’arrivo della pandemia, con il primo lockdown, durante il quale c’è stato un abbassamento del livello occupazionale delle donne, nonostante fosse entrato in vigore il blocco dei licenziamenti. Una piccola ripresa si è registrata nel 2021 e “si spera per un forte miglioramento nel 2022”.
Alcuni dati interessanti sono stati forniti anche da Valentina Cremona, imprenditrice e presidente di Terziario donna di Confcommercio Treviso: il tessuto produttivo veneto conta 90 mila imprese femminili, circa il 20,29% del totale, specializzate soprattutto nel settore dei servizi, area che ha subito un forte contraccolpo durante la pandemia.
Elementi che, a parere di Cremona, dovrebbero indurre le imprenditrici stesse e le titolari di attività a promuovere in prima persona il cambiamento all’interno delle proprie realtà, mostrando un atteggiamento che si discosti dalla “tradizionale tendenza” a escludere da progetti e iniziative le lavoratrici più culturalmente preparate, per tenerle di fatto in panchina.
“Fare impresa non significa solo fare profitto, ma esserci e creare valore“, è il messaggio diffuso da Cremona. E creare valore, secondo la presidente, significa anche supportare le lavoratrici più preparate nel raggiungimento dei propri obiettivi, nonché promuovere una maggior conciliazione tra sfera privata e professionale.
In mancanza di ciò, le donne faranno sempre più fatica a sostenere il peso del lavoro domestico (che deve invece essere distribuito con il partner) e a dedicarsi a momenti di formazione continua (solo l’8% lo fa), necessari per la crescita professionale di ognuna.
Cremona, a tal proposito, ha proposto una lista di aspetti che le donne lavoratrici e le imprenditrici devono tener presente, tra cui “proporre nuovi modelli di organizzazione” e creare una “rete di condivisione”, perché “le donne sono la colonna vertebrale delle società”.
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