Un forte legame col territorio d’origine, che ne agevola sicuramente la comprensione delle dinamiche sociali e, soprattutto, psicologiche. Un’area comunemente associata, soprattutto dall’esterno, al “viver bene” (non a caso, più in generale, la Marca è storicamente “gioiosa et amorosa”). Ma dall’interno, per chi è nato e cresciuto in questo territorio, la visione può essere ben più complessa e articolata rispetto a facili stereotipi e luoghi comuni.
Abbiamo parlato di questo proprio con il dottor Antonio Miotto, psicologo specializzato in adulti e adolescenti, nato e cresciuto a Valdobbiadene, dove ora ha anche uno studio privato.
“Mi sono spostato unicamente per gli studi universitari, stabilendomi poi definitivamente qui per dedicarmi alla vita professionale – si presenta l’esperto -. Ho sempre sentito un forte legame con il mio territorio e, dopo varie esperienze nel campo della salute e del benessere psicologico nella zona, ho aperto uno studio privato. Come dicevo inizialmente, il mio ambito di competenza è rivolto principalmente agli adulti e agli adolescenti, ma lo Studio si avvale anche della collaborazione di colleghi specializzati in altre fasce d’età. Il mio desiderio è di poter offrire un servizio psicologico accessibile e completo alla nostra comunità”.
Dottor Miotto, quali sono i principali risvolti psicologici con cui la gente del nostro territorio si misura e che deve quotidianamente affrontare?
“Nella nostra zona c’è una radicata cultura che chiamo ‘dell’invincibilità’: ogni individuo sente la necessità di dimostrarsi incrollabile, infallibile. Alcune delle cause possono essere ricondotte all’orgoglio, alla competizione sociale e all’orientamento al successo e alla produttività, elementi che hanno profondamente caratterizzato la storia socio-economica della nostra regione. La realtà, però, è ben diversa: la sofferenza psicologica è molto più comune di quanto non si creda, solo che non la percepiamo. Non vogliamo che la fragilità sia anche solo una possibilità, né per noi stessi né per gli altri. L’analogia è semplice: è come cadere, ferirsi, e coprire la ferita con un pezzo di carta, fingendo che non esista, che non sia lì. Eppure, nessuno si sentirebbe in colpa per essersi inciampato sui gradini di casa. A volte possiamo trovarci nella condizione di non avere le risorse e gli strumenti per affrontare ciò che ci fa soffrire. Chiedere aiuto è un gesto di coraggio e la forza sta nell’affrontare il dolore e nel concederci di essere autentici e fedeli a noi stessi. La pandemia, tuttavia, ha rappresentato un punto di svolta. Da un lato ha causato danni psicologici profondi, dall’altro ha contribuito a sdoganare il tema del benessere mentale, abbattendo molti dei tabù legati alla salute psicologica. Anche le nuove generazioni sono più aperte al mondo della psicologia. Questo cambiamento è probabilmente dovuto a un maggiore accesso alle informazioni, a una crescente sensibilizzazione dei media che ha stimolato il desiderio di curare maggiormente la propria salute mentale (oltre a quella fisica) e al venir meno di quello che un tempo era considerato uno stigma generazionale.
Quali invece le problematiche più frequenti che ritrova nel contatto coi suoi pazienti della zona?
“Le problematiche legate all’ansia e alla depressione sono le più comuni, ma mi ritrovo spesso ad affrontare tematiche associate al perfezionismo e alla pressione sociale, che, come accennato, sono sempre più presenti nel nostro contesto. Questo crea una continua sensazione di inadeguatezza, soprattutto quando le persone si sentono intrappolate tra aspettative irrealistiche e l’incertezza delle proprie capacità. Nelle nuove generazioni, invece, le maggiori difficoltà riguardano la sicurezza e l’autostima, cosa amplificata dalla costante comparazione sui social. Si corre il rischio di sviluppare aspettative elevatissime. Spesso è un malessere silenzioso, non confidato ai genitori e talvolta nemmeno agli amici. La cosa è rischiosa, perché può favorire lo sviluppo di disturbi alimentari, comportamenti autolesivi o forme di isolamento emotivo. Anche nelle famiglie emergono frequentemente relazioni disfunzionali, spesso amplificate da modelli di comunicazione inefficaci o da traumi generazionali irrisolti, che si ripercuotono sulla salute psicologica di ogni membro. Le dipendenze comportamentali, invece, come quelle per il gioco d’azzardo o per lo shopping, sono un’altra piaga enorme, ma invisibile”.
Come si può fare prevenzione psicologica sul territorio, considerando che vive e lavora nella Marca Trevigiana? Sappiamo che ha collaborato con enti della salute mentale e organizza eventi con le farmacie, oltre ad avere eventi programmati con i Comuni: quali altre strategie proporrebbe?
“Vedo un enorme potenziale di intervento nelle scuole, che rappresentano un ambiente fondamentale per affrontare temi come la gestione comportamentale ed emotiva, il controllo dello stress o l’autoconsapevolezza. La scuola può fare una differenza enorme nell’educazione psicologica, sfruttando anche le dinamiche sociali e relazionali che si creano al suo interno. Queste non sono aspetti secondari, ma elementi cruciali del mondo di uno studente. Non si tratta solo di parlare di questi argomenti in modo generico, ma di creare spazi di dialogo dove alunni, insegnanti e genitori possano collaborare. Progetti mirati, che aiutino i ragazzi a riconoscere le loro emozioni, a costruire relazioni sane e a gestire le pressioni sociali – come quelle legate ai social media – possono fare un’enorme differenza, dando così loro gli strumenti per un futuro che è già in fase di costruzione. Non dobbiamo dimenticare che gli adolescenti non vivono una realtà adulta in miniatura, ma hanno una loro identità propria, con tutte le necessità, i desideri e le fragilità che ne conseguono. La responsabilità è un’opportunità, non un peso. Un altro ambito chiave è quello delle strutture sanitarie locali, come i consultori, i centri di medicina o i medici di base. In questi contesti, la prevenzione può assumere forme molto concrete, come l’affiancamento nella gestione di disturbi ansiosi o depressivi nelle loro primissime fasi. Il primo segnale di un disagio psicologico può manifestarsi sotto forma di sintomi fisici: collaborare con il personale medico permette di intercettare queste problematiche e di intervenire per tempo. La prevenzione psicologica non si fa solo dall’alto, ma è un qualcosa che si costruisce creando una rete di contesti in cui le persone si sentano ascoltate, comprese e supportate. L’obiettivo è rendere la psicologia una parte integrante della vita nel nostro territorio, offrendo strumenti accessibili e concreti per le necessità della nostra comunità”.
(Autore: Alessandro Lanza)
(Foto: per concessione di Antonio Miotto)
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