Carne di vipera, oppio e mirra: la misteriosa teriaca veneziana

Prima dell’avvento delle moderne investigazioni scientifiche il veleno era il mezzo preferito per uccidere o darsi la morte senza lasciare tracce. Insapori, incolori e facilmente reperibili, le pozioni venefiche garantivano la silente eliminazione di avversari politici, rivali in amore e acerrimi nemici. La morte si celava dietro nomi sinistri come arsenico, curaro e stricnina, negli aculei di animali terrificanti, nei tessuti di piante eleganti come la cicuta, la belladonna o l’oleandro.

Protagonista di clamorosi casi di cronaca e di misteriosi intrighi internazionali, il veleno mantiene inalterata la reputazione di subdolo assassino capace di colpire chiunque e in qualsiasi momento. Alcuni amanti del brivido sono disposti a sborsare cifre da capogiro per assaggiare le carni del fugu, il pesce palla giapponese, che manipolato da mani inesperte può divenire un cibo letale.

Di pari passo con la minaccia posta dal veleno, nel corso dei secoli ha preso forma la febbrile ricerca dell’antidoto più efficace. A Venezia e in numerose altre città, già dal Medioevo erano soprattutto gli Speziali a padroneggiare i segreti dei veleni e dei relativi rimedi: professionisti esperti non solo nel maneggio di medicinali, ma anche di inchiostri, cera e droghe.

In precario equilibrio fra medicina e stregoneria, chimica e alchimia, gli speziali potevano essere esperti farmacisti in grado di salvare una vita o disonesti ciarlatani pronti a lucrare sulla credulità altrui. A Venezia, crocevia di culture orientali e occidentali, la disponibilità di materie prime rare e preziose accrebbe considerevolmente l’abilità e la reputazione degli speziali i quali, come riporta il Tassini, eccellevano nel “manipolare il secreto di Andromaco”.

Andromaco il Vecchio,medico cretese vissuto nel I secolo d.C. esercitò alla corte di Nerone e passò alla storia per aver elaborato un farmaco portentoso, la Theriaca Andromachi, più nota come teriaca o triaca. Ideata per difendersi dai morsi dei rettili, col tempo venne prescritta per guarire la peste, il morbillo, la paralisi, i dolori articolari, le febbri e addirittura l’impotenza.

La teriaca conteneva fra i cinquanta e i settanta ingredienti, alcuni dei quali segreti, frutto di studi meticolosi o di maldestri tentativi per imbrogliare i più ingenui. Sta di fatto che ne esistevano decine di versioni, alcune per i clienti più facoltosi altre per i popolani.

Considerata una panacea contro ogni male, la teriaca conteneva erbe aromatiche come la genziana, il finocchio e l’anice, spezie fra le quali il pepe, la cannella e le bacche di ginepro, sostanze come l’oppio, la mirra, il succo di liquerizia o lo zafferano. Alla base del medicamento vi era un ingrediente essenziale, la carne di vipera, trattata con olio, vino e aceto. I serpenti vivi, importati dall’Egitto ed esposti in vetrina, erano motivo di grande curiosità per gli abitanti del capoluogo lagunare e i viaggiatori di passaggio. Alcune versioni particolarmente elaborate del medicamento annoveravano componenti improbabili come i testicoli di cervo essiccati e la polvere di dente del narvalo, un cetaceo dei mari artici strettamente legato al mito dell’unicorno.

La “teriaca alla veneziana” prodotta sotto la stretta sorveglianza del Magistrato alla Sanità, si impose ben presto sulla concorrenza per l’eccellente qualità tanto da spingere le autorità della Serenissima a tutelarne la reputazione attraverso una oculata e severa politica di concessione delle licenze di preparazione. Fra le farmacie autorizzate figura quella di Rialto, “alla Testa de Oro”, così chiamata per la scultura in bronzo dorato (forse il capo di Andromaco) sopra l’ingresso. Alla farmacia era permesso produrre la “droga divina” tre volte all’anno. E tale era il prestigio di cui godeva la Scuola degli Speziali che nel 1574, in occasione della visita del re di Francia e di Polonia la corporazione allestì una magnifica galea, ornata da tappeti e stoffe preziose e con a prua, in bella vista, proprio la “Testa de Oro”.

Gli addetti alla lavorazione della medicina, i triacanti, erano riconoscibili per la giubba bigia, i pantaloni rossi, la sciarpa gialla e un cappello azzurro ornato con una piuma. A loro spettava l’onere e l’onore di versare gli ingredienti in appositi mortai di bronzo e frantumarli a colpi di pestello: uno spettacolo assai vivace, accompagnato dai canti e dai lazzi dei triacanti (Per veleni, per flati, ed altri mali / La triaca gh’a el primo in sti canali!) i quali percuotevano il metallo con tale energia da lasciare sul selciato le impronte del mortaio; cerchi e fori sono ancora ben visibili a Rialto, in campo Santo Stefano e a Cannaregio presso la farmacia “Alle Due Colonne”. Il rito culminava con un esperimento: se un animale morso dall’aspide riusciva a sopravvivere la medicina era di buona qualità e l’annata, da un punto di vista economico, prometteva bene.

Le leggi sanitarie sempre più stringenti, la messa al bando dell’oppio, le numerose frodi e soprattutto il progresso scientifico decretarono il progressivo declino della “droga divina” che, dalla fine del Settecento, gli speziali della Serenissima smisero di produrre.

Della mitica teriaca restano le tracce lasciate dai mortai sulla pietra, le scritte scolpite in prossimità delle più antiche spezierie e gli splendidi vasi gelosamente conservati dalle farmacie storiche sui quali campeggia, in smalto blu, il nome del miracoloso medicamento.

Ai nostalgici della “droga divina” non resta che ricorrere a medicinali moderni, efficaci ma decisamente meno affascinanti. Ma non tutto è perduto: negli ingredienti di alcuni amari digestivi fa capolino un’intrigante “teriaca veneziana”, un mix di erbe con proprietà antiacide, digestive ed espettoranti a base di lavanda, anice, ginepro, gramigna, cardo mariano, menta, genziana, iperico e liquirizia. Non curerà la peste e non ci salverà dal veleno dello scorpione, ma sarà un valido ausilio per sconfiggere i postumi di un impegnativo tour fra i bàcari veneziani!

(Foto: Wikipedia).
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