Il disperato equipaggio della Pubblica Fusta

La nave dei folli (particolare) di H. Bosch

La follia, intesa come incapacità o rifiuto di adattarsi alle norme sociali, suscita da sempre sentimenti contrastanti: stupore, sgomento, compassione, ilarità, repulsione. Se nell’antichità e nel medioevo la figura del folle talora coincideva con quella del saggio o dell’illuminato, a partire dall’Età moderna prevalsero il rifiuto e il disprezzo per tutti i “diversi” che sfidavano la morale e turbavano la quiete.

A Venezia, fulcro di lucrose e spregiudicate imprese marittime, la crociata contro la pazzia assunse per alcuni decenni i contorni di una galea, la Pubblica Fusta, una bireme priva di alberatura, coperta da un telo e ormeggiata davanti al Palazzo Dogale: una sagoma inconfondibile che spesso fa capolino nell’iconografia dedicata al bacino di San Marco. Se a prima vista la si potrebbe scambiare per un’imbarcazione in disarmo prossima alla demolizione, la sua centralità nelle circostanze solenni suggerisce una diversa interpretazione. Nave scuola, carcere, lazzaretto e infine manicomio ante litteram la Pubblica Fustafu, per certi aspetti, la materializzazione della Stultifera navis, la mitica nave dei folli, il vascello in precario equilibrio fra leggenda e realtà, fonte di ispirazione per poeti, filosofi e artisti fra i quali Albrecht Dürer e Hieronymus Bosch.

Nel saggio “La nave dei condannati e folli davanti al Palazzo dei Dogi”, Nelli-Elena Vanzan Marchini ripercorre nel dettaglio le vicende di un legno che, anziché solcare le rotte dominate dalla flotta veneziana, si limitò a brevi sortite in laguna prima di essere definitivamente ancorata dinanzi al molo marciano ridotta a lugubre ricovero per i reietti.

Tutto ebbe inizio a metà del ‘500 dalla duplice esigenza di dotare la Serenissima di una galea per addestrare i rematori e tamponare un’emergenza di scottante attualità, il sovraffollamento delle carceri. Ribattezzata ironicamente Locanda del Redentore per via della statua che ne ornava la prua, la Fusta avrebbe potuto anche contribuire alla sicurezza cittadina grazie alle bocche da fuoco poste sulle fiancate. In realtà nella storia della bireme non vi fu nessuna epica battaglia, ma soltanto vicende nelle quali disperazione, miseria e sofferenza si intrecciarono indissolubilmente con una crudeltà e una ferocia disumane. L’unica effimera gloria della Fusta fu probabilmente quella di sparare qualche salva di cannone durante le festività pubbliche o il passaggio dei potenti.

A proposito di follia, se nella Venezia del Cinquecento/Settecento i ceti più abbienti potevano permettersi il lusso di segregare un familiare affetto da pazzia in una residenza di campagna o in un convento (solitamente San Servolo o Santo Spirito), per i poveri l’unica alternativa era la Fusta. Non di rado erano gli stessi genitori a supplicare le autorità di relegare i loro figli nello spettrale vascello che non offriva alcuna speranza di guarigione mentale o fisica, ma almeno poneva al riparo dalla violenza del folle e dallo scherno del popolo. E se non erano i familiari a sollecitare il confino degli alienati nella nave, intervenivano in loro vece i capi contrada o i vicini esasperati. 

La progressiva inadeguatezza della Pubblica Fusta per le esigenze della flotta, vuoi per l’evoluzione delle tecniche di navigazione che per il deterioramento fisico dell’imbarcazione, segnò il destino della triste galea che dalla metà del Settecento fu destinata esclusivamente a prigione e luogo di isolamento sanitario per derelitti, infettivi e pazzi che, per il loro comportamento violento o indecente, dovevano essere collocati ai margini dalla società.

Di questa variegata schiera di dannati, assieme ai criminali, facevano parte anche tignosi, scabbiosi e sifilitici, questi ultimi ammalati nel corpo e nella mente. A governare l’eterogeneo equipaggio provvedevano il padron (il comandante), lo scrivano (incaricato di redigere una minuziosa contabilità delle persone e dei beni), i sorveglianti e i medici che, oltre alle periodiche visite, disponevano il ricovero e le dimissioni attraverso apposite “fedi”.

Galeotti e criminali erano tradotti sulla galea in catene e con pochi riguardi. Ai ferri delle guardie si sostituivano immediatamente quelli che bloccavano i malcapitati ai banchi della galea. Le prime settimane di addestramento al remo non sempre venivano detratte dal computo della pena e i condannati dovevano provvedere con le proprie risorse al vitto e alle cure sanitarie; se non ci riuscivano, la pena si allungava. Per quanto riguarda i folli, categoria che includeva vagabondi, mendicanti e individui molesti o stravaganti, risulta che la Fusta in un quindicennio ne abbia ospitati 120, un quarto dei quali morti durante la segregazione, una sessantina rimessi in libertà e gli altri rispediti in carcere o trasferiti all’ospedale militare di San Servolo.

La sagoma della Fusta del bacino di San Marco, a due passi dai simboli del potere e del trionfo economico della Serenissima, se da un lato sorprende dall’altro testimonia la volontà di esibire la durezza dei castighi inflitti da una giustizia efficiente e inesorabile.

Assai diverso era invece l’atteggiamento delle autorità veneziane nei confronti della pazzia femminile, giudicata decisamente meno preoccupante di quella maschile e dunque relegata all’esclusivo ambito familiare. Chi aveva denari sufficienti affittava una cella in un monastero e sovvenzionava una tutrice; alle madri più povere, per non soccombere dinanzi alla vergogna di una figlia che girava nuda, si cibava di rifiuti e viveva in scandalosa promiscuità, non restava che invocare l’arresto della disgraziata. Il disagio mentale delle donne era talmente ignorato dal potere pubblico che molte malate rimasero sino alla prima decade dell’Ottocento nelle carceri, ammassate le une alle altre, condannate a scontare una pena durissima senza aver commesso alcun crimine.

Al crepuscolo del Settecento e agli albori del secolo successivo le pressioni del governo austriaco, la politica napoleonica e le generose donazioni di alcuni benefattori fra i quali il doge Ludovico Manin segnarono un punto di svolta per l’approccio pubblico alla malattia mentale: prima gli uomini e poi le donne fecero il loro ingresso in un padiglione appositamente costruito sull’isola di San Servolo; si svuotarono la Fusta, il convento di Santo Spirito e le celle di parecchi monasteri; la pazzia divenne appannaggio della medicina e, almeno in apparenza, i malati di mente furono sottratti alle grinfie degli aguzzini e dal bigottismo religioso.  

A San Servolo confluirono “alienati” di ogni sorta, dai malati di mente agli infettivi, dai piagati ai pellagrosi; qualcuno guarì, altri morirono, molti trascorsero la loro misera esistenza confinati in un luogo sempre più distante dal mondo dei vivi.

Ci vorranno ancora molti anni per una netta presa di distanza dalla mera coercizione dei malati psichiatrici e l’avvento delle rivoluzionarie teorie di Franco Basaglia. La dimensione tragica e misteriosa della follia, l’ignoranza e il pregiudizio, la strumentalizzazione politica e sociale avranno per lungo tempo la meglio sui tentativi di umanizzare il manicomio. Eppure, come asseriva lo scrittore e psichiatra Mario Tobino nel suo capolavoro Le libere donne di Magliano: “Ogni creatura umana ha la sua legge; se non la sappiamo distinguere chiniamo il capo invece di alzarlo nella superbia; è stolto crederci superiori perché una persona si muove percossa da leggi a noi ignote”.

(Autore e foto: Marcello Marzani).
Articolo di proprietà di: Dplay Srl
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