La vana crociata contro la bestemmia

Secondo una recentissima indagine Venezia è la città italiana in cui si impreca di più. Fra le regioni più inclini alla collera verbale ci sono il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna. I pugliesi, i piemontesi, i siciliani e i friulani non sono da meno, ma incuriosisce la presenza di una sola città toscana, Firenze: se gli studiosi avessero trascorso una giornata nel porto di Livorno forse avrebbero rivisto la classifica.

Le bestemmie, recita il dizionario Treccani, sono “espressioni ingiuriose contro Dio, i santi e le cose sacre”. Esclamate con furiosa consapevolezza o con disinvoltura come si trattasse di un semplice intercalare, fantasiose o ripetitive, storpiate nel tentativo di attenuarne la blasfemia, esse occupano da sempre un posto di rilievo nel linguaggio volgare, il turpiloquio. Dante Alighieri nella Divina Commedia accenna più volte alla bestemmia: i dannati, accalcati sulle sponde dell’Acheronte “bestemmiavano Dio e lor parenti” e nel terzo girone dell’Inferno i bestemmiatori, violenti contro Dio, l’arte e la natura, sono costretti a stare distesi su un sabbione bollente con lo sguardo rivolto verso il cielo.

Gli antichi punivano i blasfemi con la morte per annegamento o con atroci supplizi quali l’accecamento e la foratura della lingua con un ferro rovente. Ancora oggi in alcuni Paesi le offese alla religione possono comportare sanzioni molto pesanti: la vicenda dello scrittore indiano Salman Rushdie, autore dei “Versi satanici”, ne è una chiara dimostrazione.

Ma torniamo a Venezia. Nel Cinquecento il dilagare della bestemmia spinse le autorità della Dominante a istituire una specifica magistratura incaricata della repressione di tutti i reati lesivi il buon costume, imprecazioni comprese. La lotta contro il turpiloquio sacrilego era sollecitata dal timore, comune a molti territori della Penisola, che le reiterate bestemmie finissero con lo scatenare una terribile vendetta divina che avrebbe irrimediabilmente compromesso un mondo già fragile per le continue epidemie, le guerre e le carestie.

Venezia corse dunque ai ripari istituendo, il 20 dicembre 1537, una magistratura ad hoc, gli Esecutori contro la Bestemmia. Trepatrizi detti anche “Difensori in foro secolare delle leggi di Santa Chiesa e Correttori della negligenza delle medesime” si affiancarono a un altro strumento di polizia, i Signori di notte al Criminal e con l’aiuto dei Capisestiere posero sotto stretta sorveglianza locande, case di tolleranza, scuole, monasteri e luoghi pubblici alla ricerca di bestemmiatori, defloratori di vergini promesse spose, ruffiani, stampatori di libri proibiti e profanatori in genere.

Sebbene la giustizia lagunare fosse notoriamente implacabile (il 5 maggio 1519 a tre bestemmiatori sorpresi in un’osteria di Rialto fu tagliata la lingua, mozzata una mano e vennero strappati gli occhi), la nuova magistratura si mostrò estremamente efficiente: in poco meno di una cinquantina d’anni furono emessi oltre duecentocinquanta proclami riguardanti gioco, moralità e decoro. Le prescrizioni dei singoli decreti erano riassunte su lapidi murarie, alcune giunte sino ai giorni nostri come quella sulla facciata della chiesa di Santo Stefano risalente al 1633. Un’altra lapide, che reca la data del 25 aprile 1668, promette “preggion, galera, berlina” e altre sanzioni a chi osi “strepitar, tumultuar” ovvero “proferire qualunque bestemia o parole di obsenità”.

L’abitudine di invocare il nome di Dio invano era talmente diffusa da coinvolgere anche il clero. Il 7 agosto 1540 le autorità trassero in arresto prete Agostino parroco di S. Fosca, bestemmiatore e giocatore incallito. Dopo averlo esposto al pubblico ludibrio dall’alba al tramonto lo rinchiusero per tre mesi a pane e acqua in una gabbia in ferro e legno (la cheba) sul campanile di San Marco; per vendicarsi contro i monelli che lo deridevano, l’empio sacerdote non trovò migliore soluzione che “pissarli addosso per isfocar alquanto il suo dolore”.

La “buoncostume lagunare” puniva severamente ogni comportamento in contrasto con la decenza e l’ordine pubblico; erano perseguiti i responsabili di schiamazzi, rumori molesti, stese di panni in luoghi inadatti, commerci abusivi e coloro che proferivano espressioni oscene o ingiuriose contro Venezia. Ogni anno si celebravano un centinaio di processi grazie anche a una peculiarità degli Esecutori, gli unici magistrati autorizzati a ricevere denunce anonime.

Tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento la competenza degli Esecutori contro la Bestemmia, nel frattempo saliti a quattro, si estese alla registrazione dei forestieri da parte degli albergatori veneziani, al controllo delle scommesse sull’esito delle elezioni pubbliche, alla vigilanza sui matrimoni fra cristiani, ebrei e ortodossi, all’approvazione di immagini e scenografie teatrali nelle quali erano proibiti riferimenti alle Sacre Scritture. Attivi contro ogni forma di eresia vera o presunta, gli Esecutori intervenivano anche nelle dispute fra impresari e attori.

Un impegno diuturno, scrupoloso, ma rivelatosi una lotta contro i mulini a vento. L’impegno congiunto della Chiesa, dei magistrati e delle altre autorità civili non fu sufficiente a sradicare né a Venezia e né altrove il vizio della bestemmia e tanto meno a scongiurare scandali di ogni sorta che, nei secoli a seguire, dimostrarono come il vizio e la devianza hanno spesso la meglio sulla mera coercizione.

Ancora oggi, in San Marco, insieme agli schiamazzi dei turisti e alle imprecazioni degli ultimi eroici veneziani in perenne stato d’assedio si ode lo straziante lamento di prete Agostino: “mi porgono il mangiar per un sol buso / con l’acqua che mi dan ‘vece de vino”, al quale fa eco l’implorazione della sua donna: “piango che come uccello non ho l’ale / che teco ad habitar nel picciol tetto, / pronta verrei a congoder tuo male”.

(Foto: Wikipedia).
#Qdpnews.it

Total
0
Shares
Articoli correlati