Quella del 7 luglio 1805, per Venezia, non fu una domenica qualsiasi. Attorno alle otto del mattino, chi percorreva calle delle Muneghette si trovò di fronte a una scena raccapricciante: da una finestra del civico 2888 penzolava un corpo imprigionato in una rete; la mano sinistra e i piedi erano inchiodati a una croce di legno legata alla trave del soffitto. L’uomo era nudo, con i soli fianchi coperti da un telo bianco fissato alle cosce; il braccio destro ciondolava inerte e sul costato si notava una ferita. Una corona di spine cingeva il capo di Matteo Lovat, classe 1759, calzolaio originario delle montagne bellunesi. Lo sconcerto fu ancora maggiore quando si apprese che Matteo si era crocifisso da sé, in preda a una sorta di delirio mistico.
Dalla lettura della Crocifissione di Matteo Lovat di Lara Pavanetto emerge che il dramma di calle delle Muneghette giunse al culmine di un’esistenza costellata da stravaganze e sofferenze. Il gesto fu l’epilogo di un’esistenza compromessa dalla miseria, dalla malattia fisica e mentale, dalla crudeltà e dai pregiudizi di una società spietata con tutti i diversi.
La storia di Lovat inizia nella Val di Zoldo, cuore delle omonime Dolomiti e famosa per i “ciòdarot”, i fabbricanti di chiodi. Animato dalla fede, ma angosciato da un futuro di fatica e privazioni, Matteo manifestò sin da giovanissimo il desiderio di farsi prete. Uno dei fratelli c’era riuscito, ma in famiglia mancavano le risorse per sostenere altre spese scolastiche. Costretto a fare il calzolaio, Matteo non tardò a manifestare segnali allarmanti di un malessere solo in parte giustificato dall’ardore religioso e dalla frustrazione.
Nel 1802, nella solitudine della sua camera, si recise il membro e i testicoli con un ferro tagliente per poi gettarli in strada ove a raccoglierli fu la madre. Non fu un gesto d’impeto, ma una decisione accuratamente pianificata: il calzolaio aveva predisposto tutto il necessario per evirarsi e disinfettare la ferita senza infettarsi e compromettere le funzioni urinarie. In quell’epoca nell’Italia settentrionale e in particolare nel bellunese imperversava la pellagra, conseguenza di una dieta povera e squilibrata, a base di polenta e cereali avariati. Nota come malattia delle quattro D (demenza, dermatite, diarrea e decesso), è probabile che il morbo abbia acuito l’ansia e la depressione che tormentavano Matteo.
Nel settembre del 1802, per sfuggire allo scherno dei compaesani, Matteo Lovat si trasferì a Venezia presso il fratello Angelo. La quiete fu purtroppo effimera e, a distanza di un anno esatto, il giovane calzolaio mise in atto il primo tentativo di crocifissione. La padrona di casa lo sorprese mentre tentava di inchiodarsi alle assi del letto e, per evitare problemi più gravi, non esitò a metterlo alla porta. Al fratello Angelo, costernato per l’accaduto, egli si limitò a ricordare laconicamente che quel giorno si celebrava San Matteo.
Assunto nella bottega di Martino Marzani, Matteo Lovat non abbandonò l’idea del martirio che mise in atto in quella famosa domenica del 1805. Fra la folla che lo circondava dopo averlo tirato giù dalle mura si fece largo un luminare della medicina dell’epoca, il cremasco Cesare Ruggeri che trovò il ferito con gli occhi chiusi e il respiro affannoso. Prima di essere trasportato in clinica questi ebbe la forza di esprimere al fratello Angelo la propria infelicità. Ricoverato presso l’ospedale dei Santi Giovanni e Paolo, Matteo Lovat ricevette una serie di cure che oggi farebbero sorridere: stoppa e olio di mandorle sulle ferite, impacchi di mollica di pane e latte, oppio, limonata. Taciturno e inappetente, doveva comunque avere una bella tempra poiché si ristabilì in pochissimi giorni. Di fronte alle insistenti richieste di dimissioni, il dottor Ruggeri ne dispose l’internamento nel “Pio Spedale de’ Pazzi di San Servolo”.
Durante le settimane di ricovero in clinica Matteo Lovat, di propria iniziativa, scrisse una lettera alle autorità di polizia lagunari che continuavano a incalzarlo con domande sulle ragioni del suo gesto. Il calzolaio ce la mise tutta per dimostrare di non essere pazzo, confermando la propria fede incrollabile, ribadendo l’amarezza per non essere stato ammesso al sacerdozio e proclamandosi vergine; ma la missiva conteneva anche qualcosa di più oscuro e inquietante. Accennando a una “maggia fatta a me da sacerdoti” Lovat evocò lo spettro di una sorta di incoraggiamento a compiere il folle gesto della castrazione. E poiché nella lettera Matteo Lovat parve alludere all’amore non corrisposto per un ragazzo, il dubbio si fa atroce: l’uomo potrebbe essersi evirato, consapevole della propria omosessualità, per autopunirsi e sfuggire alle tentazioni della carne. Oppure potrebbe essere stato spinto a farlo da qualcuno vicino alla Chiesa: un’ipotesi che diviene ancor più inquietante leggendo un versetto del Vangelo secondo Matteo: “vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».
In un groviglio inestricabile di ipotesi, suggestioni e verità una cosa è certa: le ragioni che spinsero Matteo Lovat a emulare Origene e Gesù Cristo rimarranno per sempre oscure. A San Servolo egli si rinchiuse in sé stesso rifiutando il cibo e dando l’impressione di voler morire d’inedia. Chi lo assisteva racconta che trascorreva lunghe ore in completa solitudine, scrutando il sole, forse nel disperato tentativo di combattere la morsa di gelo che gli attanagliava il fisico e la mente.
Dopo circa sette mesi di internamento, la depressione e la tisi ebbero la meglio su quel corpo divenuto scheletrico; Matteo Lovat morì l’8 aprile del 1806 portandosi nella tomba i misteri della sua travagliata esistenza, sconfitto da un mondo che lo aveva respinto e che egli aveva sdegnosamente abbandonato.
(Foto: Wikipedia).
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