Poeta, drammaturgo e giornalista ante litteram, Pietro Aretino fu un tipo quantomeno originale. Amato e temuto dai potenti per il proprio sarcasmo, autore di testi religiosi e di opere dal contenuto palesemente provocatorio, trascorse la propria esistenza fra glorie e accuse di immoralità.
Figlio di un calzolaio e di una cortigiana talmente bella da ispirare un dipinto dedicato alla Vergine nunziante, Pietro nacque ad Arezzo il 19 aprile del 1492, lo stesso anno in cui Colombo scoprì l’America. Irrequieto sin dalla prima infanzia, rifiutò il cognome paterno e a diciotto anni lasciò la propria città natale per darsi a una vita avventurosa sotto l’ala protettrice di personalità autorevoli che ne apprezzavano la spontaneità e l’ironia mordace. Giunto a Roma all’epoca di Leone X, l’Aretino frequentò con disinvoltura salotti aristocratici e osterie, palazzi blasonati e postriboli, spinto dalla curiosità di conoscere l’autentica natura dell’essere umano.
Abile raccoglitore di aneddoti e instancabile organizzatore di burle, l’Aretino fu un prezioso alleato per coloro che usavano la satira come strumento per screditare gli avversari politici. Con la morte di Leone X le cose cambiarono e il poeta decise saggiamente di cambiare aria. Nel1522 si congedò dalla Città Eternalasciandosi alle spalle una folta schiera di ammiratori, ma anche numerosi avversari.
A Firenze strinse un’importante amicizia con Giovanni delle Bande Nere, il condottiero immortalato da Ermanno Olmi nel film “Il mestiere delle armi”; nella Roma di Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, suscitò parecchio scandalo con i Sonetti lussuriosi. Stabilitosi a Mantova fu accolto da Federico Gonzaga in un ambiente apparentemente ospitale, ma che non gli garantiva sufficiente protezione dalle brame di vendetta dei nemici romani. Per tale ragione, sentendosi in pericolo, decise di allontanarsi alla chetichella e il 25 marzo 1527 all’età di trentacinque anni approdò a Venezia.
Affascinato dal lusso e dalla magnificenza della Dominante, attirato dalla tolleranza dei costumi e rapito dalla bellezza delle donne veneziane, il controverso poeta toscano elesse la capitale lagunare a dimora definitiva. Ottenuto, come suo costume, il sostegno del potente doge Andrea Gritti, conquistò le simpatie di numerosi artisti fra i quali il pittore Tiziano Vecellio e Jacopo Sansovino, architetto e scultore di gran fama.
Il “censor del mondo altero e de la verità nunzio e profeta” trovò a Venezia pane per i suoi denti. Accolto con generosità in un palazzo signorile presso Rialto, per pura coincidenza l’Aretino dimorò a due passi dalla chiesa dei SS. Apostoli ove, nel 1579, un cappuccino a forza di prediche riuscì a sradicare l’abitudine da parte del bel sesso di girare in città “scollacciate e a mamme scoperte”. Il letterato toscano, che di soldi ne scialacquava parecchi, in oltre vent’anni non pagò neanche una rata della pigione tanto che, sfrattato, dovette traslocare in Riva del Carbon questa volta sovvenzionato dal Duca di Firenze.
Ben inserito negli ambienti letterari e artistici, l’Aretino guadagnò rapidamente consensi anche fra i politici che si contendevano i suoi uffici di abile mediatore e saggio consigliere. Forte della reputazione di “flagello dei principi” il “divin Pietro Aretino”, come lo definì l’Ariosto, vide crescere in maniera esponenziale le proprie fortune allorché ricevette in dono dall’imperatore Francesco I un pesante catenone d’oro: monile prezioso, ma soprattutto una esplicita ufficializzazione del proprio prestigio.
Creatore di opere a sfondo teologico e di saggi che ne accrebbero la fama di scrittore osceno, l’Aretino condusse a Venezia una vita all’insegna del divertimento, della libertà e dello svago. Circondato da una pletora di servitori e belle donne, le famose Aretine, protagonista di amori libertini, infaticabile organizzatore di ricevimenti sfarzosi, il divin Pietro capeggiava una “corte del bengodi” che attirava visitatori da mezza Europa.
Al culmine del proprio successo ebbe a scrivere: “Mi dicono ch’io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l’anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice. La mia effigie è posta in fronte a’ palagi. Si scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni vetri di cristallo si chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome, perché papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello che bagna una parte della mia casa è denominato l’Aretino. Le mie donne vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore”.
Facile intuire come dinanzi a tali affermazioni l’invidia prosperasse. E vi fu chi ripagò l’Aretino con la stessa moneta fatta di versi sprezzanti e carichi d’acrimonia. Come lo storico Paolo Giovio, che appresa la notizia che il rivale era sfuggito miracolosamente a un attentato immaginò questo epitaffio: “Qui giace l’Aretin poeta tosco, di tutti disse mal fuorché di Cristo, scusandosi col dir: non lo conosco”. Parole alle quali l’Aretino replicò così: “Qui giace il Giovio storicone altissimo, di tutti disse mal fuorché dell’asino, scusandosi col dir: egli è il mio prossimo”.
Se negli anni della maturità l’Aretino cedette alla tentazione di apparire una personalità autorevole piuttosto che uno scapestrato, gli eccessi non mancarono mai e non passarono inosservati: in almeno un paio di circostanze egli dovette difendersi dalle accuse di bestemmia e sodomia e una volta fu vittima di una sonora bastonatura in risposta alla propria graffiante ironia.
I biografi narrano che l’Aretino, giunto all’età di 64 anni, sebbene non presagisse l’imminenza della morte decise misteriosamente di confessarsi e comunicarsi “piangendo estremamente” dinanzi al parroco. Un ravvedimento autentico o temporaneo? Non lo sapremo mai. Sta di fatto che la sera del 21 ottobre 1556 cadde a terra fulminato da “una cannonata di apoplexia”, un colpo che lo fece stramazzare dalla “cadrega d’apozo”, la sedia alla quale era appoggiato. Pare che egli avesse l’abitudine, colto dalle risa, di buttarsi all’indietro con la seggiola e quella fatidica sera lo fece un’ultima volta, ridendo fragorosamente dopo aver ascoltato le gesta delle sue due sorelle meretrici ad Arezzo. Alcune malelingue affermarono che dopo che gli fu impartita l’estrema unzione ebbe la forza di reagire con un moto blasfemo: “Ora che son unto, guardatemi dai topi!” pare abbia esclamato.
Il suo corpo fu deposto nella chiesa di San Luca a Venezia, accanto alle spoglie di due amici storici con i quali l’Aretino sognava di perpetuare, anche nell’aldilà, la propria esistenza all’insegna del piacere e della burla. Sulla lapide si dice fosse incisa questa frase “D’infima stirpe a tanta altezza – venne Pietro Aretin biasmando il vizio immondo – Che da color che tributava il mondo – Per temenza di lui tributo ottenne“. Il pesante catenone d’oro che ostentava con tanto orgoglio, il giorno delle esequie fu donato ai poveri: forse un clamoroso segno di disprezzo per il potere terreno, sicuramente la prova che nell’animo del “divin Aretino” non albergava soltanto il vizio, ma anche una commovente e umanissima generosità.
(Autore: Marcello Marzani)
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