Suppliche e maledizioni nell’antica Altino

Il Parco archeologico di Altino è una tappa obbligata per chi vuole saperne di più sul nostro passato. Opere d’arte e oggetti di uso comune ci restituiscono un’immagine vivida di quella che fu la vita quotidiana in un centro veneto antico fondato nel I millennio a.C. e pacificamente romanizzato a partire dal II secolo prima di Cristo.

Altino, nei periodi più floridi, fu rinomato emporio commerciale, snodo viario strategico, centro agricolo e manifatturiero d’avanguardia, luogo residenziale d’élite. Le campagne erano l’habitat ideale per pecore dalla lana pregiatissima e le acque salmastre della laguna, oggi invase dal granchio blu, furono teatro di interessanti pratiche di acquacoltura fra le quali l’allevamento del prelibato canestrello. Altino ha legato il proprio nome a una vera e propria “autostrada dell’antichità”, la via Claudia Augusta Altinate: trecentocinquanta miglia romane, poco più di 560 chilometri, che univano la X regio (Venetia et Histria) ad Augusta (oggi Augsburg), sulle sponde del Danubio.

Fra i reperti esposti nel percorso museale ve ne sono alcuni che, dietro un aspetto apparentemente insignificante, celano storie incredibili. Si tratta di piccole lamine votive in piombo, sulle quali gli antichi incidevano suppliche e preghiere.

Simili alle laminette votive, ma considerate illecite, erano le tabellae defixionis recanti una serie di maledizioni rivolte a nemici politici, rivali in amore e avversari sportivi.

Il nome defixiones è collegato al verbo defigere (inchiodare) vuoi per l’usanza di trapassare la lamina con un chiodo per poi appenderla, sia per l’implicito fine di “inchiodare” il corpo e la mente delle vittime dell’anatema.

Fra le tabelle conservate nel museo vi è una commendatio di cinque per dieci centimetri (sul reperto sono illuminanti gli studi di Buonopane, Cresci Marrone, Tirelli 2007 e Cresci Marrone 2016), che, oltre a vistosi segni di piegatura, presenta un angolo danneggiato da colui che per qualche ragione la strappò dal supporto sul quale era appesa, forse un albero. Sulla laminetta, spessa un millimetro, è incisa una frase in latino che inizia da un lato e termina in quello opposto: «Io, Cesernio Severo, già promisi in voto 30 sesterzi come dono affinché nessuna questione giudiziaria mi procurasse nemici. Ti darò un’oca e parimenti ti promisi in voto un pollastro». Secondo gli archeologi e gli epigrafisti l’oggetto è stato realizzato circa 1800 anni fa.

I romani usavano fissare le laminette votive sugli alberi o nei santuari, al culmine di una cerimonia pubblica o privata, talvolta alla presenza dei sacerdoti. Le defixiones, data la loro natura di oggetti proibiti, erano invece collocate segretamente in prossimità di sorgenti, tombe o pozzi, luoghi a diretto contatto con le divinità infere.

Analizzando il testo della tabella di Altino, peraltro contenente diversi errori ortografici e priva di una esplicita titolarità divina, gli studiosi sono giunti alla conclusione che l’autore della supplica, Cesernio Severo, potrebbe averla collocata in una delle due aree sacre extraurbane sino ad ora individuate: quella a nord ovest dell’antico abitato in località Canevere o quella a sud est, in località Fornace, ove si ipotizza l’esistenza di un bosco sacro dove gli antichi veneti veneravano il dio Altino e i romani avevano designato per il culto di Giove.

Altrettanto incerta è la causa del ripiegamento della tabellina: forse un rituale consolidato a riprova che la supplica era andata a buon fine, conseguenza del periodico riordino del santuario oppure risultato di un gesto di stizza di Cesernio irritato per l’inefficacia della preghiera. È invece plausibile supporre che Cesernio, seriamente preoccupato per il potenziale coinvolgimento in una vicenda giudiziaria, abbia predisposto la lamina al culmine di una serie di invocazioni orali e liturgiche e che per risultare più convincente abbia alzato la posta: un’oca in aggiunta ai trenta sesterzi e al pollastro già promessi.

Se l’auspicio di Cesernio fu davvero esaudito resta un mistero. Con l’aiuto di Alberto Angela, autore di un saggio sulla vita quotidiana nella Roma del I secolo d.C. possiamo azzardare un’ipotesi: all’epoca il prezzo di un mulo si aggirava attorno ai 500 sesterzi, quello di uno schiavo oscillava fra i 1.200 e i 2.500; la paga mensile di un legionario ammontava a 1.200 sesterzi e gli abitanti di Pompei, durante la precipitosa fuga, abbandonarono nelle loro case “tesoretti” del valore medio di 1.000/5.000 sesterzi. Fatte queste premesse le trenta monete bronzee, l’oca e il pollastro promessi da Cesernio per campare tranquillo non paiono gran cosa e non sorprende se Giove, irritato da quella miserevole offerta, la rifiutò sdegnosamente: da qui all’immagine di Cesernio incollerito e deluso che strappa la lamina dal tronco sacro e l’accartoccia nervosamente il passo è breve ….   

(Autore: Marcello Marzani)
(Fonte foto, autore, epoca e titolo: Museo Archeologico nazionale di Altino – Musei archeologici nazionale di Venezia e della Laguna – su concessione del Ministero della Cultura)
(Articolo di proprietà di Dplay Srl)
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