“Inventare la pace” con l’accoglienza: quattro relatori d’eccezione in Seminario

Antonella Uliana e Alberto Camerotto danno il via alla serata “Inventare la pace”

Un dibattito pubblico su come “inventare la pace” è stato protagonista in un’aula magna colma di cittadini attenti al Seminario vescovile venerdì 27 ottobre. Una serata piena di spunti di riflessione grazie agli ospiti d’eccezione che hanno reso l’incontro molto ricco: il giornalista e scrittore Paolo Rumiz, il docente dell’Università di Padova Egidio Ivetic, il professore dell’Università di Palermo Andrea Cozzo e Antonio Calò della Fondazione Venezia per la Ricerca della Pace.

“Ilioupersis. Archetipi Epici” è un progetto – a cura di Alberto Camerotto, Antonio Calò, Valeria Melis, Katia Barbaresco, Federico Tanozzi, Enrico Chies e Federica Leandro – con lo scopo di “ragionare su guerra e pace con gli occhi di Omero, Euripide, Virgilio, Quinto Smirneo, Trifiodoro. Guardare e comprendere le logiche della violenza e inventare le vie della civiltà”. Un percorso itinerante in tutte le più simboliche città italiane e che, a Vittorio Veneto, ha trovato terreno fertile al Museo della Battaglia grazie a svariati sostenitori tra i quali Banca Prealpi SanBiagio.

I relatori e i moderatori della serata

A dare inizio alla serata, un preludio musicale del pianista Francesco Rocco. A seguire, l’assessore vittoriese alla Cultura Antonella Uliana ha ringraziato tutti i partecipanti: “Il nostro Museo della Battaglia diventa non tanto un luogo legato esclusivamente alla memoria ma un luogo dove si ragiona, si parla, si discute e si riflette. Questo progetto deve diventare, per la città simbolo della fine della prima Guerra mondiale, un appuntamento fisso”.

“Insegno discipline lontane da noi ma, insieme ai ragazzi, abbiamo costruito un percorso partendo dal tema dell’“Ilioupersis”: la caduta della città di Troia – ha poi spiegato Alberto Camerotto, docente di Letteratura greca all’Università Ca Foscari di Venezia -. Un tema durissimo che parla di una guerra che entra dentro la vita quotidiana delle persone, di ognuno di noi. La guerra diventa la cosa più spaventosa che conosciamo e, purtroppo, oggi affligge ancora molte parti del mondo uccidendo donne, bambini, anziani che sono la memoria dei luoghi, della felicità della città. Cose da brivido che con questo laboratorio abbiamo voluto divulgare tramite un seminario itinerante nei luoghi più belli d’Italia. 

Abbiamo iniziato con i musei archeologici di Venezia e Vicenza, l’acropoli e la cattedrale di Cagliari. Abbiamo accompagnato questi giovani a confrontare i testi con i luoghi. Parlare di pace e guerra in questi luoghi, come il Museo della Battaglia, fa esplodere le idee e i pensieri. Se tu non conosci la stupidità della guerra, non puoi ragionare della pace: una cosa bellissima da costruire giorno dopo giorno con la nostra testa e il nostro cuore” ha concluso Camerotto.

Ivetic: “Sono possibili nuovi conflitti”

Il dibattuto pubblico è poi entrato nel vivo. A prendere la parola per primo è stato il professor Egidio Ivetic: “Siamo tutti rimasti sconvolti da questa guerra tornata in Europa, ci eravamo dimenticati cosa poteva significare: da febbraio dell’anno scorso il mondo è cambiato. Il conflitto dell’anno scorso chiude un’epoca e ne apre una nuova: una ridefinizione dei confini dell’Occidente, la frontiera dell’Europa è mobile. La guerra in Ucraina lascerà più di un secolo di cicatrici. Parliamo di quali Stati sono in guerra e in pace ma, dall’anno scorso, siamo entrati in una fase in cui tutti possono entrare in guerra, sono possibili nuovi conflitti. C’è tanto rancore e astio con l’Occidente. Guarderemo con nostalgia gli anni passati”.

Calò: “L’accoglienza è la strada da intraprendere per una pace reale”

Ha poi preso la parola Antonio Calò della Fondazione Venezia per la Ricerca della Pace, un Centro di ricerca dedicato ad approfondire gli elementi che favoriscono processi di pace e la difesa e promozione dei diritti individuali e dei popoli. In particolare, Calò ha raccontato la propria storia, caratterizzata dall’accoglienza: ha aperto le porte a 6 ragazzi emigranti che oggi fanno parte della sua famiglia, tant’è che li definisce “i suoi figli”.

“Ho ancora davanti agli occhi i 400 studenti da 7 licei del Veneto che sono venuti qui in città – ha detto Calò -. Quando ripenso ai loro volti, sento un senso di responsabilità: quale futuro vogliamo dare a questi giovani? Non possiamo iniziare un dibattuto giudicando i giovani, dobbiamo guardare la nostra generazione perché oggi siamo noi adulti a governare e prendere le decisioni, non i giovani. Se c’è una responsabilità, è principalmente nostra. La cosa che dispiace moltissimo è che, di fronte alla guerra, subentra un senso di impotenza, che porta a un senso di giustificazione e, a sua volta, a una non azione, a una non risposta, subendo in modo passivo quello che accade. In una guerra i protagonisti non sono solamente i due continenti ma tre: gli spettatori che possono mettersi in mezzo dividendo i due o restare passivi. Da che parte stiamo? Bisogna avere il coraggio di schierarci. I giovani hanno bisogno di testimoni credibili, non omertosi. Sono le nostre coscienze che si devono interrogare.

Come facciamo a dire che non sappiamo? Abbiamo tutti i mezzi per sapere e conoscere, e chi conosce non può dire a se stesso di non conoscere. Se c’è la conoscenza c’è la responsabilità. Dove la nostra responsabilità oggi? Come si declina in un piano di azione? Il professor Camerotto ha fatto in modo che 400 studenti possano riflettere. Il pensiero oggi è un’eresia, quindi stare qui a riflettere è già un azione. Il rischio grosso è l’indifferenza, l’abitudine alle immagini può diventare volgarità. Di fronte a questi giovani sento una grandissima responsabilità: quale testimone passeremo ed eredità lasceremo? Mi intristisco pensando questo, ma poi incontro i ragazzi e i loro volti mi chiedono ‘Perché?’. Io mi pongo la stessa domanda ogni giorno e la risposta che mi sono dato è: ‘Non ci è chiesto di cambiare il mondo, ci è chiesto di cambiare noi’.

Il pubblico nell’Aula magna del Seminario vescovile

Io insegno che bisogna andare nei luoghi, guardare negli occhi coloro che hanno vissuto certe esperienze per incominciare a comprendere. Era il 18 aprile 2015 quando ci fu la più grande tragedia del mediterraneo: 900 morti. Quel giorno ero a scuola e per l’ennesima volta vidi quelle immagini e mi chiesi: ‘Posso ancora restare indifferente quando la mia conoscenza mi grida di fare qualcosa?’. Quando sono tornato a casa in macchina mi è venuta davanti agli occhi un’immagine: i miei 4 figli scappavano minacciati da qualcosa; a un certo punto pregavo che qualcuno aprisse la porta e li potesse salvare. Quando sono tornata a casa l’immagine era svanita, ma non la grande volontà.

Ho scaraventato la cartella e ho detto a mia moglie: ‘Stanno morendo tutti, dobbiamo fare qualcosa, e l’unica cosa che possiamo fare è aprire la nostra porta’. Lei non mi rispose, ci siamo solo guardati, capiti e abbracciati. Abbiamo telefonato ai nostri 4 figli chiedendo se fossero disposti ad accogliere e tutti hanno risposto con grande entusiasmo, sapendo di mettere in discussione la propria quotidianità.

Dopo un mese e mezzo sono arrivati i miei 6 figli venuti da lontano: 6 musulmani dal South Sahara e noi 6 cristiani ma, quando ho incrociato i loro sguardi e storie, ho visto 6 persone che chiedevano aiuto come i miei figli se volessero scappare. ‘Se lei non avesse fatto quello che ha fatto, non avremmo più creduto in lei’ mi dissero gli studenti. L’accoglienza non è una dimensione dei profughi ma della vita, la via propedeutica della pace. Accogliere vuol dire aprire la strada per una pace reale. Bisogna essere accolti per quello che siamo e vi auguro di vivere l’esperienza di accogliere l’altro: è la nostra ricchezza e identità”.

Rumiz: “Il confine è un sensore degli eventi”

Ha proseguito il dibattito pubblico il giornalista triestino Paolo Rumiz, raccontando cosa significa vivere in un confine: “Sono figlio della frontiera, una delle più complicate d’Europa. Mia nonna ha cambiato sei volte bandiera senza spostarsi da Trieste. I miei genitori hanno vissuto una vita con un certo allarme avendo vissuto in prima persona la guerra, la frontiera era una linea sismica. Per me, nato nel 1947, quel luogo era meraviglioso, un sismologo dove potevo sentire le vibrazioni del mondo che mi circondava. Stare sul confine significa percepire delle cose anche che provengono da distanza. I confini si parlano, quello che stava per succede in Ungheria era chiaro a qualunque camionista che passava per Trieste, e la stessa cosa è accaduta con l’ex Jugoslavia.

Il confine è un sensore degli eventi, si apre e chiude come una cozza. È successo anche con la guerra in Ucraina: subito dopo l’inizio dello scontro, si vedeva passare nel bosco i profughi afghani che scappavano, dopo la fuga dell’esercito americano, e sotto a casa mia c’erano le colonne di donne e bambini dall’Ucraina. Dal buon senso contadino capivo cosa sarebbe accaduto dopo: i contadini del mio piccolo paese hanno iniziato subito a fare legna per l’inverno successivo perché la guerra ‘avrebbe causato una crisi energetica’ e mi hanno spinto a fare lo stesso. Il confine ha causato in me claustrofobia e, allo stesso tempo, interesse nell’andare dall’altra parte.

Oggi vediamo uno spiegamento esagerato di militari che controllano questo confine, come se l’infezione venisse dal Paese confinante, come se il nemico arrivasse solo da lì e non lo avessimo già in casa. I confini sono sorvegliati da chi non ha la minima intenzione di sistemare le cose: di avere un’immigrazione regolare”.

Cozzo: “Dobbiamo schierarci per entrambe le parti”

Ha concluso il primo ciclo di interventi il professor Andrea Cozzo: “Siamo abituati a pensare alle guerra solo quando le abbiamo davanti ma, strutturalmente, non è un buon modo per prevenire che scoppino in futuro. Lavorando su noi stessi, cosa possiamo fare noi per evitare una prossima guerra? Per evitare la prossima guerra, dobbiamo cercare di capire cosa cambiare singolarmente e collettivamente: inventare la pace durante la pace. Dobbiamo imparare a schierarci per entrambe le parti civili.

Bisogna imparare i meccanismi della guerra attraverso i media: ‘aggressivo’ e ‘aggressore’ non è un analisi della realtà ma un punto di vista. Il male è tutto da una parte e il bene dall’altra, l’aggressione è il male assoluto: sostitutivi di insulti, screditiamo quello che vogliamo dimostrare come nemico. I telegiornali ci fanno vedere le immagini delle distruzioni, delle morti solo di una parte. ‘Terroristi’ vengono chiamati solo quelli di un popolo che bombarda, forse il primo, non dell’altro che fa la stessa cosa. Non c’è nessuna differenza tra i due popoli: entrambi fanno i terroristi. Bisogna quindi capire la propaganda dei media e distinguerla dalla realtà.

Il preludio musicale del pianista Francesco Rocco

Per combattere questa differenziazione, dobbiamo cambiare identità: non siamo italiani, non siamo europei, non siamo umani ma siamo ‘ecologici’. Se elimino una montagna per costruire un’autostrada, non è indifferente. Se ragioniamo così siamo indotti a rallentare i ritmi, pensare prima di agire, capire se dobbiamo veramente aggredire l’altro, che fa parte della nostra stessa identità, o ci sono altri modi per discuterne. Questo è quello che dobbiamo fare per prevenire una prossima guerra. C’è molto da imparare: dobbiamo interrogarci su quello che c’è da cambiare in noi, prima di pensare a come devono cambiare i cattivi di turno”. 

“Se la storia è una maestra di vita, forse abbiamo sbagliato qualcosa nell’insegnarla a scuola?”

“Le persone imparano la storia da un certo punto di vista, che dà ragione al loro popolo e torto all’altro – ha risposto Cozzo -. Ognuno, in buona fede, racconta le cose dal suo punto di vista, facendo vedere ostile l’altro. Un buon numero di guerre scoppiano per equivoci e mancanza di ascolto. Al di là dai libri di scuola, bisogna interpretare anche i telegiornali che ogni giorno vediamo”.

“Se noi perdiamo la memoria della guerra, non sapremo cosa significa la pace. Quanto siamo privilegiati della non belligeranza? Non ce ne rendiamo conto perché non lo narriamo in modo unitario. Girando per i musei traevo che la guerra era da museo e non destinata a ripetersi. Se non attualizziamo la storia, difficilmente capiremo che la guerra può saltare fuori in qualsiasi momento. Non esiste solo la memoria libresca e museale, deve essere multisensoriale: lo sguardo, la voce, dei click che ti svegliano e rendono improvvisamente presente la guerra” ha aggiunto Rumiz. 

“Viviamo nell’eterno presente, quindi scoppia una guerra e pensiamo: ‘Ma come?’. Non è facile imparare la storia. Hanno ragione i giovani ad essere confusi perché l’abbiamo inventata noi la confusione. Bisogna fare ordine” ha sostenuto Ivetic.

“Non si racconta più – ha detto Calò -. È venuto a mancare un momento importantissimo nelle nuove generazioni: l’ascoltare, il silenzio e il tramandare da nonno a figlio. Questa frattura, la mancanza di questo racconto, la stiamo pagando a caro prezzo. Se ci fosse, recupereremmo la polifonia di posizioni, pensieri ed esperienze. Oggi non abbiamo tempo di ascoltare e trasmettere. L’esperienza viene declassata, non è portatrice di valore. La maggior parte della storia è stata scritta dagli uomini, ma il 50% della storia è stata fatta dalle donne: quando ascolteremo questa parte, avremo il racconto completo”. 

(Foto: Qdpnews.it ©️ riproduzione riservata).
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