Come viveva la donna veneta fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento? Quali erano le sue condizioni e quale il suo pensiero? Per celebrare la Festa della donna, ieri venerdì 8 marzo, al Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto, è stata approfondita, con gli occhi di una donna, l’antropologa Elisa Bellato, la storia delle donne durante l’industrializzazione del baco da seta.
“Parlare di donne dal punto di vista delle donne non è scontato – ha spiegato l’antropologa Bellato -. Da sempre la storia è stata scritta dagli uomini e questo fa sì che noi, del passato, abbiamo una visione limitata. Questo tipo di esperienza e studio rientra nella women studies: ripensare alla società con occhi diversi, con una sensibilità diversa, studiare le donne del passato con gli occhi delle donne”.
Se potesse tornare indietro, lo farebbe? “A questa domanda – continua Bellato – ci sono due risposte contrapposte. I maschi accetterebbero volentieri ma le donne, pensando di tornare giovani con tutto quello che hanno patito, non lo farebbero. Questo ci fa capire che il vivere al femminile il passato era molto diverso da quello descritto nei libri”.
L’attività bachisericola ha svolto per molto tempo un ruolo fondamentale nell’economia vittoriese, connotando anche il paesaggio con la presenza di gelsi diffusi un po’ ovunque, dei quali rimangono ancora numerosi esemplari. L’allevamento del baco da seta è iniziato come piccola attività a carattere familiare, integrativa del lavoro agricolo, per poi assumere consistenza sempre più rilevante. La bachicoltura, la trattura della seta e l’industria del seme bachi infatti raggiunsero qui livelli di avanguardia in campo nazionale, costituendo per molti decenni la prima attività produttiva della zona.
Nel 1930 la provincia di Treviso con 5.500.000 di kg di bozzoli è la prima produttrice in Italia. Nel 1936 in provincia di Treviso 40.000 famiglie di contadini allevavano bachi da seta. Ancora nel 1948 la produzione provinciale di bozzoli mantiene il primato nazionale. Nel 1952 in provincia si hanno 17 stabilimenti bacologici, 97 essiccatoi e 44 filande.
Un’industria importante e fondamentale per il sostentamento delle famiglie contadine dell’epoca. La figura protagonista durante l’allevamento e la lavorazione del baco, era proprio la donna.
La donna nella bachicoltura
Ansia e stress all’ordine del giorno: “In casa, alle donne, era stato affidato l’allevamento del baco da seta, la prima entrata nella campagna contadina. Data la sua delicatezza, c’erano tante accortezze – spiega Bellato -. Un lavoro snervante, in un continuo stato di ansia e preoccupazione. I bambini aiutavano la donna andando a prendere la foglia fresca ma era la donna che si alzava durante la notte per cibarli.
Poi si andava in filanda. “Si iniziava a lavorare molto presto, a 11 anni, e, la maggior parte delle lavorazioni, erano al femminile mentre il maschio era il direttore. I figli erano empatici: capivano che le donne erano sacrificate, che facevano il loro meglio per la famiglia – prosegue Bellato -. Loro quindi aiutavano nella coltivazione dei bachi e, quando rimanevano a casa da soli perché le donne erano alle Filande, aiutavano in casa per agevolarle una volta che rientravano. A questi figli oggi è rimasta la stima, il senso del sacrificio e del dovere: la mamma degli anni ’40 è diventata un modello per loro“.
La vita in famiglia
In quegli anni, nel nostro territorio, era usanza avere una residenza patrilocale: i figli maschi continuavano a risiedere, anche dopo il matrimonio, con le loro famiglie insieme alla moglie, la quale veniva quindi allontanata dalla sua famiglia. “L’alleato, per la donna, era solo il marito, non c’era nessun altro in casa – continua Bellato -. Ogni introito che la donna portava a casa, era messo a disposizione di tutta la famiglia. Era l’unico modo per sopravvivere data la fame e la miseria, si sopravviveva grazie a questo sistema economico ma galleggiava, trovava un equilibrio grazie al sacrificio della donna”.
Ma come si sentiva la donna in una residenza patrilocale? “Per il quieto vivere, imparavi a stare al tuo posto: l’importante era la collettività, non l’individuo. La società contadina sacrificava soprattutto la donna. Ci sono due parole che possono farci riflettere sulla situazione delle donne in famiglia: Agency e Sestìn”.
Agency è la libertà che abbiamo di affermare la nostra volontà, desideri all’interno delle regole date dalla nostra società. C’è un margine di autonomia dato da un contesto definitivo. Quanta Agency aveva la donna negli anni ’40?
Sestìn è il garbo, stare al proprio posto, sapersi comportare. Negli anni ’40 la donna doveva stare composta (dritta, mani sul grembo ed espressione neutra) senza esprimere le proprie emozioni e pensieri.
Cosa dava conforto alle donne? “La religione era un profondo conforto, nel bene e nel male. Dava una cornice di senso a tutta la vita – continua Bellato -. Spesso andavano anche due volte al giorno in chiesa. La preghiera dava lo stesso effetto della meditazione: un’azione ripetitiva che afferma valori positivi, se ci credi, aiuta. Anche andare in un museo, visitare un bel monumento ti riequilibra i livelli fisiologici. La donna non coltivava l’ansia di una possibilità di una vita diversa, accettava una situazione. Non si disperava perché, per la religione, è un peccato. Nei momenti di disperazione, dovevi affidarti a Dio”.
Come si mangiava? “Le donne non si sedevano a tavola con la famiglia ma stavano in piedi e mangiavano gli ‘scarti‘ (della gallina, ad esempio, mangiavano le zampe, la testa o il collo). Non si sono mai lamentate anzi, le piacevano: accettando la situazione, il piacere diventava psicologico. Osserviamo oggi chi porta il tacco alto, la biancheria intima ‘trendy’: non sono comodi, ma ci identifichiamo in questi modelli”.
Com’era la situazione dopo il parto? “Nella vita contadina veniva tutelata la puerpera. Dopo aver partorito la donna stava a letto e veniva ben nutrita dalla sua famiglia. Si pensava fosse fragile e che, se le fosse capitato qualcosa nelle settimane successive il parto, avrebbe causato dei danni irreversibili”.
La testimonianza di Teresa
Presente alla serata c’era la signora Teresa. Nata nel ’28, è entrata in Filanda a 11 anni e faceva la scoatina, per poi passare a mistra.
“In filanda sono rimasta fino ai 15 anni, finché non mi sono sposata – racconta Teresa -. Non eri un’operaia, davi i soldi al padrone di casa: eri un ingranaggio della famiglia, il tuo lavoro era per la sussistenza di tutta la famiglia. La Filanda era un ambiente caldo, ti bruciavi spesso le mani e aveva un forte odore. Con il padrone c’era rispetto reciproco, rispettavamo i ruoli assegnati. Dopo il matrimonio, dovevi dedicarti alla famiglia e ai figli quindi lasciavi il lavoro alla Filanda”.
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