Storie di donne e di seta al Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto

Al Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto la Giornata internazionale della donna è diventata l’occasione per entrare nelle case e nelle filande di fine Ottocento e primi Novecento, seguendo le tracce di chi, in quelle stanze, trascorreva le giornate fra bachi, bozzoli e lavori di casa. Durante la serata “Storie di donne d’altri tempi”, l’antropologa Elisa Bellato ha proposto uno sguardo tutto femminile sulla storia dell’industrializzazione del baco da seta, accompagnata dalla conservatrice dei Musei Civici, Francesca Costaperaria.

La conservatrice dei Musei Civici, dott.ssa Francesca Costaperaria e l’antropologa Elisa Bellato

Il punto di partenza è una domanda semplice solo in apparenza: come viveva la donna veneta fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento? Quali erano le sue condizioni e il suo modo di pensare? Per rispondere, Bellato ha ricordato che la storia è stata scritta quasi sempre dagli uomini e che, per questo, il passato ci arriva filtrato da uno sguardo parziale. Il suo lavoro si inserisce nei cosiddetti women studies, che cercano di rileggere la società con occhi diversi, studiando le donne del passato dal punto di vista delle donne di oggi. Anche il modo di giudicare quegli anni cambia: molti uomini, potendo tornare indietro, accetterebbero volentieri; molte donne, invece, pensando a ciò che hanno patito, non lo farebbero.

Donne impegnate nella lavorazione della lana 

Per capire questo mondo bisogna partire dal ruolo della bachicoltura nell’economia vittoriese. L’allevamento del baco da seta ha segnato a lungo il paesaggio con i filari di gelsi e ha rappresentato una risorsa fondamentale per le famiglie contadine. Nato come attività domestica integrativa al lavoro nei campi, il settore divenne presto un vero motore produttivo: allevamento dei bachi, trattura della seta e industria del seme-bachi raggiunsero livelli di avanguardia a livello nazionale, tanto che per decenni la seta fu la prima attività economica della zona. Nel 1930 la provincia di Treviso era la prima in Italia per produzione di bozzoli, con 5 milioni e mezzo di chilogrammi; nel 1936 vi erano 40 mila famiglie contadine impegnate nell’allevamento e ancora nel 1948 il primato provinciale si manteneva. Nel 1952 si contavano 17 stabilimenti bacologici, 97 essiccatoi e 44 filande. Al centro di questo sistema c’era soprattutto la donna.

L’interno di una Filanda 

In casa a lei era a`idato l’allevamento dei bachi, la prima entrata in denaro del bilancio familiare. Un lavoro delicato, che richiedeva continue attenzioni e portava con sé tensione e preoccupazione: i bachi andavano nutriti con foglia fresca più volte al giorno e di notte la donna si alzava per controllarli e sfamarli, mentre i bambini aiutavano raccogliendo le foglie di gelso. Terminata la fase domestica, iniziava la vita in filanda. Si cominciava a lavorare giovanissime, spesso a undici anni, in ambienti caldi, saturi di vapore, dove il contatto continuo con l’acqua bollente provocava ustioni alle mani e l’odore della seta in lavorazione era molto forte. La maggior parte delle mansioni era femminile; la figura maschile, in genere, stava alla direzione. I figli, vedendo la fatica delle madri, sviluppavano rispetto e un forte senso del dovere, aiutando sia nell’allevamento dei bachi sia nelle faccende domestiche. Quelle madri degli anni Quaranta sono diventate per molti un modello di sacrificio silenzioso.

Servivano delle mani piccole e delicate per la lavorazione del baco da seta

La serata ha aperto una finestra anche sulla vita familiare. Nel territorio era diffuso il modello della residenza patrilocale: dopo il matrimonio i figli maschi restavano a vivere nella casa dei genitori con la moglie, mentre la sposa lasciava la propria famiglia d’origine. In quella nuova casa, l’unico alleato era il marito; tutto il denaro che la donna portava con il suo lavoro veniva messo a disposizione del nucleo allargato. Era l’unico modo per sopravvivere in un contesto di fame e miseria, un equilibrio reso possibile soprattutto dal sacrificio femminile. Bellato ha introdotto due parole chiave per leggere questa condizione. La prima è “agency”, la libertà di affermare la propria volontà dentro le regole sociali date: negli anni Quaranta, lo spazio di scelta per una donna era molto limitato. La seconda è “sestìn”, il garbo, il saper stare al proprio posto: la donna doveva essere composta, dritta, con le mani in grembo e il volto neutro, senza mostrare apertamente emozioni e pensieri.

Il lavoro alla Filanda, le 
mistre

A dare sostegno, in questo quadro, era soprattutto la religione. La pratica quotidiana della preghiera o`riva una cornice di senso all’intera esistenza, un conforto profondo che permetteva di affrontare fatiche e dolori. Molte donne andavano in chiesa anche due volte al giorno; secondo Bellato, la ripetizione delle preghiere poteva avere un e`etto simile alla meditazione, capace di calmare e rassicurare. La possibilità di una vita diversa non veniva quasi coltivata: si accettava la propria condizione, e disperarsi era visto come un peccato. Nei momenti più difficili, ci si affidava a Dio.

“Tanta fatica nel spingere qualcosa di più grande di te”

La descrizione del quotidiano è passata anche dalla tavola. Le donne non sedevano a mangiare con il resto della famiglia: restavano in piedi, servivano gli altri e poi consumavano ciò che rimaneva, spesso le parti meno nobili degli animali, come zampe, testa o collo della gallina. Eppure non se ne lamentavano, anzi arrivavano a considerare quei bocconi come un piacere, trasformandoli psicologicamente in una scelta. Bellato ha messo in parallelo questa accettazione con alcuni modelli odierni, come scarpe scomode o biancheria alla moda: elementi che non o`rono comfort reale, ma in cui ci si riconosce perché imposti dai codici sociali. Dopo il parto, invece, la società contadina mostrava un’attenzione particolare: la puerpera veniva messa a letto e nutrita con cura, considerata fragile e bisognosa di protezione per evitare conseguenze permanenti.

L’incontro “Storie di donne d’altri tempi” al Museo del Baco da Seta a Vittorio Veneto 

A chiudere l’incontro è stata la testimonianza diretta della signora Teresa, nata nel 1928. Entrata in filanda a undici anni, iniziò come scoatina per poi diventare mistra. Vi rimase fino ai quindici anni, quando il matrimonio la riportò a tempo pieno fra casa e famiglia. Ha raccontato un lavoro fatto di caldo intenso, mani spesso bruciate, odore penetrante, ma anche di rispetto reciproco con il padrone, nel segno di ruoli chiari e condivisi. Non si sentiva un’operaia nel senso moderno del termine: i soldi che guadagnava non erano solo suoi, ma dell’intera famiglia, e lei stessa si percepiva come un ingranaggio necessario alla sopravvivenza di tutti. Dopo le nozze, come voleva l’usanza, lasciò la filanda per dedicarsi ai figli e alla gestione della casa.

Per chi oggi visita il Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto, serate come questa aggiungono alle macchine, ai bozzoli e alle fotografie le voci di chi ha vissuto davvero quegli ambienti. Le storie raccolte da Elisa Bellato e restituite al pubblico permettono di leggere la bachicoltura non solo come pagina di storia economica, ma come tessuto di vite femminili, fatto di fatica, responsabilità, fede e ingegno, che ha contribuito in modo decisivo alla storia di questo territorio.

La signora Teresa e il ricordo dei tempi passati 

(Autore: Redazione di Qdpnews.it)
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