Filantropismo e crescita della comunità come fattori che entrano nell’analisi economica e nelle scelte imprenditoriali c.d. “extra profit”.
Da qualche tempo si parla negli Stati Uniti di una corrente filosofica (ed economica) che ha avuto l’attenzione degli intellettuali e della prima copertina del Times. É quella dell’altruismo efficace, che sembra aver conquistato non solo l’attenzione, ma anche i patrimoni, di molti multimiliardari americani. É l’altruismo filantropico che indirizza risorse verso progetti capaci di massimizzare il benessere collettivo, di perseguire il massimo bene per il maggior numero di persone.
Nel 2021 è stato stimato che il movimento e l’organizzazione Open Philanthropy detenesse un patrimonio di 46 miliardi di dollari, cresciuto dal 2015 del 37% ogni anno. Denaro che, però, fa fatica a essere convogliato verso progetti concreti, se è vero che i dati raccontano che solo l’1% della raccolta effettuata è spesa ogni anno. Difficoltà a individuare le azioni più efficaci coerenti con la filosofia sottostante dell’efficienza impediscono, come rilevato da alcuni critici, di intervenire sulle cause strutturali dei problemi individuati, poiché ad agire sui sintomi (povertà, fame, guerre, diseguaglianze) ci si perde nella difficole “assegnazione di valore” alle priorità da affrontare. È meglio investire nella ricerca di un nuovo vaccino o salvare concretamente vite umane dalla fame?
Sono dilemmi che portano ai paradossi usuali, quando si mescolano teorie economiche e istanze etiche. È comunque rilevante il fatto del superamento del principio di base storico della scienza economica che la associava indissolubilmente all’egoismo. L’altruismo, nella forma dell’attenzione lungimirante agli impatti dell’attività produttiva sul sistema sociale generale, sta diventando un principio assunto dall’impresa in modo organico nella propria strategia e nel suo rapportarsi con il mercato e con l’ambiente economico e umano di riferimento.
Una ricerca pluriennale della Bocconi su un campione di oltre 100 aziende ha rilevato un aumento considerevole delle donazioni a fondazioni o enti no-profit, pari in 4 anni al 117%. In valore assoluto si tratta di 567 milioni di euro dal 2015 al 2020, flusso che è aumentato durante il periodo pandemico e che è stato indirizzato soprattutto a protezione civile e sanità (19% e 17%), ma con un considerevole aumento anche per le attività sportive e culturali (+23%).
Quello che appare interessante e che emerge dalla ricerca è che si assiste a un salto di livello dell’interesse per le attività diciamo extra-profit delle imprese. Quella che potremmo definire responsabilità sociale non appartiene più alla competenza dei settori marketing o della comunicazione, ma è discussa a livello dei consigli di amministrazione, degli amministratori delegati e delle direzioni. L’altruismo di donazione entra a far parte della strategia d’impresa con un movimento dal basso verso l’alto.
Non si tratta, naturalmente, dell’economia dell’altruismo o dell’economia di Francesco (d’Assisi: cd. EoF), che indirizza l’attività economica verso un altruismo quasi assoluto e dettato da forti motivazioni morali e religiose. Alcune motivazioni insite nelle strategie di impresa non sono esenti da rilievi di strumentalità profit.
È interessante rilevare il cambio di paradigma dall’egoismo conclamato a un altruismo da costruire, che ha lo scopo di coltivare e far crescere la comunità, uno dei fattori che entrano nell’analisi economica e nelle scelte imprenditoriali. Questo movimento, d’altronde, accompagna una riflessione più ampia sui temi della cooperazione e della solidarietà, che progressivamente si stanno affermando in ragione delle crisi sempre più frequenti e drammatiche che stiamo vivendo.
Forse si riuscirà anche a sfatare la comune assunzione che studiare l’economia rende più pessimisti rispetto alla bontà degli altri. Piccoli passi sono compiuti per trasformare organizzazioni, come le imprese, viste in una luce che forse non corrisponde più a una realtà in movimento.
Autore: Anselmo Castelli