Apprendista dimissionario ante tempo risarcisce la formazione ricevuta

Si commenta ovunque, in queste ultime settimane, la sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato l’apprendista dimissionario a risarcire l’azienda, per la formazione ricevuta prima delle sue inattese dimissioni (Trib. Roma 9.02.2024, n. 1646).

La vicenda è piuttosto lineare: nel contratto di apprendistato professionalizzante volto al conseguimento della qualifica di “Operatore Specializzato” al termine di un percorso della durata di 36 mesi, era prevista la possibilità di recedere per giusta causa o giustificato motivo (in quest’ultimo caso con preavviso); tuttavia, in caso di dimissioni prive di tali validi motivi era prevista “la trattenuta di una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata (1/26 dell’importo mensile) di formazione erogata fino al momento del recesso”, calcolata sulla retribuzione fissa e variabile.

Poiché le dimissioni dell’apprendista prima del termine pattuito erano prive di causale (ne erano in alcun modo qualificate) la Società, a conti fatti, era creditrice dell’importo di 9.838,85 euro; recuperava parte della somma con una trattenuta sulle competenze di fine rapporto, fino a capienza, e agiva in giudizio per la differenza.

Lo scontro verteva sulla legittimità della clausola, della quale l’ex apprendista invocava il carattere vessatorio. Ma il Tribunale romano era di diverso avviso. Da un lato ricordava che simili clausole hanno “lo scopo di predeterminare l’entità del risarcimento del danno a favore del datore, nell’ipotesi in cui il lavoratore non rispetti il periodo minimo pattuito di durata del rapporto (c.d. patto di stabilità)” e, al pari di penali o caparre “con le quali le parti abbiano determinato in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento, non avendo natura vessatoria, non rientrano tra quelle di cui all’art. 1341 c.c., e non necessitano, pertanto, di specifica approvazione”. Si tratta infatti di clausole di durata minima che coinvolgono un diritto potestativo disponibile, e legittimano il datore di lavoro che ne subisce il mancato rispetto a chiedere il risarcimento del danno.

Dall’altro, il Tribunale insisteva sulla qualità dell’interesse del datore, titolato a recuperare il “dispendio economico sopportato per la formazione di un proprio dipendente” al solo fine di “poter beneficiare, per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore”.

In quest’ottica, l’unico elemento rilevante erano i costi del corso di formazione sostenuti dalla società e non ammortizzati, non il materiale vantaggio economico tratto dal dipendente tramite la specifica formazione. Costi, peraltro, non contestabili, “atteso che sia la scelta della formazione da impartire ai propri dipendenti, sia la scelta del soggetto ritenuto idoneo a tale scopo è rimessa in via esclusiva, ex art. 41 Cost., all’autonomia organizzativo-gestionale dell’imprenditore, non sindacabile né dal lavoratore né in sede giudiziaria” (Trib. Roma, sent. n. 1646/24 cit.).

La sentenza suscita un po’ di scalpore perché punisce una parte apparentemente debole del rapporto, e ancora inesperta del mondo del lavoro (un apprendista, appunto), ma non è una novità. In almeno 2 occasioni, la Suprema Corte ha affrontato, e risolto in senso favorevole alla azienda, una fattispecie quasi identica. Si trattava di un contratto stipulato tra un pilota e una compagnia aerea che aveva sostenuto i (rilevanti) costi dell’addestramento per conseguire l’abilitazione a condurre un certo tipo di aeromobile, a patto che il pilota si impegnasse a restare in servizio per almeno 3 anni dopo il conseguimento del brevetto. In caso contrario, il pilota avrebbe rimborsato alla compagnia la quota di spesa non ancora ammortizzata, con un meccanismo intuitivo: il rimborso totale della spesa sostenuta dalla compagnia per l’eventuale cessazione del rapporto nel 1° anno; i 2/3 della spesa per il recesso nel 2° anno, il restante terzo per il 3° anno (Cfr. Cass. 7.09.2005, n. 17817; Cass. 11.02.1999, n. 1453). Clausola considerata legittima dalla Cassazione.

In un passato più recente, identico principio è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito nella fattispecie, contigua, del patto di prolungamento del preavviso. Un patto che “non è finalizzato, in via esclusiva, a fornire al datore di lavoro un adeguato lasso di tempo per provvedere alla sostituzione del lavoratore, ma può anche consentire al datore di lavoro medesimo di effettuare sul lavoratore un investimento in termini di formazione e crescita professionale, facendo affidamento sulla garanzia di stabilità del rapporto di lavoro” (Trib. Udine sent. del 21.02.2022, n. 38).

Autore: Alessandro Ripa –  Sistema Ratio Centro Studi Castelli
Foto archivio Qdpnews.it
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