I regimi patrimoniali del patrimonio e le conseguenze del divorzio.
Con la grande riforma del diritto di famiglia del 1975, il regime patrimoniale legale della famiglia è la comunione legale dei beni tra i coniugi. Ciò significa che, sin dalla celebrazione del matrimonio, la famiglia che ne è scaturita ha come regime patrimoniale la comunione dei beni e che tutti i diritti sui beni, acquistati da uno o da entrambi i coniugi, cadranno in comunione e saranno inderogabilmente per la metà del marito e per la metà della moglie. I coniugi possono optare anche per un diverso regime patrimoniale, quale la separazione dei beni, la comunione convenzionale o il fondo patrimoniale; quest’ultimo, tra l’altro, è un regime solo eventuale e integrativo di uno tra gli altri regimi, alternativi tra di loro.
La volontà di avere un regime patrimoniale diverso dalla comunione deve essere espressa da entrambi i coniugi e può essere manifestata o direttamente all’atto del matrimonio, qualora i coniugi vogliano la separazione dei beni, oppure con un’apposita “convenzione matrimoniale” ai sensi degli artt. 159 e 162 c.c., anche dopo la celebrazione del matrimonio.
Qualora nessuna volontà venga espressa dai coniugi, il regime legale che sorge automaticamente, fin dalla celebrazione del matrimonio, è quello della comunione legale.
Con l’ordinanza 12.02.2021, n. 3767, la Cassazione Civile, sezione IV, ha rivisitato i principi che regolano la comunione legale dei beni tra i coniugi. La norma di riferimento è l’art. 177 c.c.; prevede che rientrano nella comunione coniugale gli acquisti effettuati durante il matrimonio dai coniugi, sia insieme, sia singolarmente, comprese le aziende gestite da entrambi i coniugi, se costituite dopo il matrimonio.
Per quanto riguarda i beni acquistati singolarmente dal coniuge, essi cadono in comunione “ope legis”, senza che sia necessario un ulteriore trasferimento alla comunione da parte del coniuge. Entrano nella comunione legale, purché non siano consumati al momento del suo scioglimento, anche i frutti dei beni esclusivamente propri dei coniugi e i proventi delle attività separate dei coniugi. Trattasi della c.d. “comunione de residuo”, poiché riguarda esclusivamente ciò che rimane al momento del suo scioglimento che, salvo casi assai rari, si verifica al momento della separazione coniugale.
Il principio che la norma esprime riguardo ai frutti e ai proventi (ad esempio, i redditi derivanti dall’esercizio della professione di ciascun coniuge) è che non confluiscono immediatamente nella comunione legale e che ciascuno dei coniugi è libero di disporne in totale autonomia, decidendone l’utilizzo a proprio esclusivo piacimento, finanche di consumarli, senza che sia necessario l’accordo con l’altro coniuge, cui non spetta alcun potere di veto. L’orientamento espresso in Cassazione con la citata ordinanza n. 3767/2021, ribadisce che soltanto i proventi dell’attività individuale del coniuge, che residuano al momento dello scioglimento della comunione legale, diventano patrimonio comune di entrambi e il coniuge non percettore può, pertanto, pretendere di averne la metà.
L’unico limite che incontra l’autonomia decisionale del coniuge percettore del reddito è che ciascuno dei coniugi è tenuto ad adempiere al proprio “dovere contributivo”, ossia a “contribuire ai bisogni della famiglia”, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143 c.c.). Una volta assolto il dovere contributivo, il coniuge percettore del reddito può disporre come crede dei proventi individuali.
La “comunione de residuo” potrebbe essere considerata una “comunione ordinaria” che si forma nel momento in cui la comunione legale cessa. Questa normativa è rivolta a garantire, da un lato, al coniuge percettore del reddito, di essere libero nelle decisioni di impiego del proprio reddito; dall’altro lato, garantire l’altro coniuge in ordine alle sorti del patrimonio che la famiglia ha formato durante il regime di comunione legale dei beni.
Restando in materia di separazione coniugale, di particolare interesse è la sentenza 29.07.2021, n. 21761, pronunciata dalla Cassazione Civile a Sezioni Unite, secondo cui, nell’ambito del divorzio congiunto o della separazione consensuale, l’accordo con cui i coniugi operano dei trasferimenti immobiliari l’uno a favore dell’altro, ha la medesima validità ed efficacia di un atto pubblico redatto da un notaio ed è titolo per la trascrizione nei pubblici registri; si richiede che tale trasferimento immobiliare venga inserito nel verbale di separazione consensuale o nella sentenza che recepisce gli accordi del divorzio raggiunti fra le parti.
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Autore: Valeria Tomatis – Sistema Ratio Centro Studi Castelli