Le imprese nel periodo Covid hanno beneficiato di un accesso al credito favorito dalle garanzie dello stato. L’economia è ripartita grazie a politiche espansive sul debito pubblico. L’inflazione ha consentito di beneficiare di una riduzione del costo del lavoro. Tutto questo purtroppo ha un prezzo che ora le imprese dovranno onorare.
Nell’esercizio 2022, 1° anno post Covid, l’economia ha avuto una forte ripresa. Il PIL nazionale (+6,8%, rispetto all’esercizio 2021) si è attestato su valori pari a quanto conseguito nel 2019. Le attese restano di crescita sia nel 2023 (+1,2%) sia nel 2024 (+1,1%), seppur in rallentamento rispetto al 2022. Non mancano, tuttavia, motivi di preoccupazione in quanto lo sviluppo economico è stato indotto da politiche pubbliche espansive e non trova, invece, fondamento su elementi strutturali.
Nel periodo Covid le imprese hanno avuto ampio accesso al credito grazie al Fondo centrale pubblico, che ha assicurato il rischio delle banche. Nel periodo dal 17.03.2020 al 30.06.2022 sono state rilasciate garanzie statali per finanziamenti erogati per € 252,9 miliardi. L’economia interna, peraltro, ha beneficiato anche della crescita indotta artificiosamente dai vari bonus fiscali per oltre 110 miliardi. Le imprese, in questa situazione già “drogata“, hanno infine profittato degli effetti prodotti dall’improvviso aumento dell’inflazione.
Questa dinamica, nel breve, tende a favorire la marginalità, in quanto i prezzi di vendita vengono, in qualche misura, proporzionati alla crescita dei costi mentre gli stipendi restano invariati. In linea teorica, un’impresa capace di ribaltare gli incrementi di costo sui clienti conseguirà un valore aggiunto adeguato all’inflazione e un margine operativo lordo in miglioramento per effetto della svalutazione subita dal costo del lavoro (pari all’inflazione del 8% registrata nel 2022), che nell’immediato non subisce incrementi in quanto la sua dinamica è collegata ai diversi tempi della contrattazione nazionale. Purtroppo, le imprese, a breve, saranno chiamate a “pagare il conto” di tutto ciò, con effetti pesanti sulla loro continuità aziendale. I finanziamenti concessi nell’ambito delle misure Covid prevedevano durate di 6 anni con un preammortamento fino a 24 mesi, oramai terminato. Il loro rimborso oggi ha una durata breve, a 4 anni, con rate difficilmente supportabili, destinate ad assorbire interamente le liquidità interne con il rischio di compromettere gli equilibri finanziari.
L’inflazione, peraltro, concorre ad appesantire il servizio del debito. I finanziamenti bancari a tasso variabile, normalmente adottati, sono destinati a diventare sempre più onerosi, per gli adeguamenti ai movimenti inflattivi. Molti di questi debiti dovranno essere ristrutturati con la compromissione del rating aziendale e l’ulteriore difficoltà di accesso al credito per le imprese. Le banche, di conseguenza, rilevando la crescita di posizioni a sofferenza , adotteranno strategie di contenimento del rischio riducendo l’esposizione creditoria con politiche restrittive nella concessione di nuova finanza.
Per quanto riguarda la domanda interna, è ragionevole attendersi, a breve, una contrazione dei consumi a seguito della perdita di potere di acquisto degli stipendi.
Al contempo si avvierà un periodo conflittuale con richieste sindacali per adeguamenti salariali il cui impatto sarà pesante. Difficilmente il conto economico avrà le marginalità per assorbire un improvviso incremento di costo di un fattore produttivo così rilevante, con i conseguenti risultati negativi di gestione. In questo scenario è improbabile che le finanze pubbliche possano intervenire ancora in soccorso dell’economia, tenuto conto che il debito pubblico di giugno 2023, pari a 2.843 miliardi, è cresciuto di oltre 72 miliardi rispetto all’anno precedente.
(Foto: archivio Qdpnews.it).
Autore: Simone Rastelli – Sistema Ratio Centro Studi Castelli