La critica del lavoratore è consentita se in buona fede e a condizione che non leda onore e reputazione del datore di lavoro.
La delicata questione del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è stata affrontata dalla Corte di Cassazione (sez. lavoro) nella sentenza n. 17689/2022, che ha ritenuto illegittimo il licenziamento del manager di un’azienda, il quale, a pochi mesi dalla sua assunzione, aveva segnalato fatti di potenziale rilevanza penale, manifestando al consiglio di amministrazione un formale dissenso su composizione e consistenza di alcune poste contabili contenute nella bozza di bilancio relativa al periodo precedente alla sua nomina.
Tralasciando i termini della vicenda, che presenta aspetti peculiari, è invece interessante osservare alcuni “passaggi” della sentenza che offrono importanti spunti di riflessione a valenza più generale per lavoratori e datori di lavoro.
Il diritto di critica del lavoratore trova fondamento nell’art. 21 della Costituzione, che riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione; nonché nell’art. 1 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) che riconosce il diritto dei lavoratori “nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto stesso.
Nell’ambito del rapporto di lavoro, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro deve essere contemperato con l’obbligo di fedeltà che l’art. 2105 c.c. pone a carico dei lavoratori e con il rispetto dei generali precetti di correttezza e buona fede nell’esecuzione di detto rapporto. Vale a dire che il diritto di critica del lavoratore trova un limite invalicabile nei diritti del datore di lavoro, quali ad esempio onore e reputazione, che non devono essere lesi.
Al riguardo, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, i Giudici ribadiscono che “il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore e la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica […] e può configurare un fatto illecito”, consentendo il recesso del datore di lavoro qualora l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario indispensabile alla prosecuzione del rapporto e sia manifestazione di un condotta ascrivibile al suo autore a titolo di dolo o colpa.
Con riferimento alla condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o amministrativa fatti di reato o altri illeciti commessi da datore di lavoro, in consolidati orientamenti giurisprudenziali di legittimità si afferma che “la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non possa di per sé integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi”, fermo restando, ovviamente, che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle competenti autorità.
Per quanto riguarda l’obbligo di fedeltà sopra citato, i Giudici escludono tassativamente che tale obbligo possa estendersi fino a imporre al lavoratore di astenersi dal denunciare fatti illeciti che ritiene si siano verificati in azienda: se così fosse si passerebbe da un dovere di fedeltà a un “dovere di omertà” non accettabile, naturalmente.
L’esercizio del potere di denuncia non può essere fonte di responsabilità, se non quando il ricorso ai pubblici poteri avviene in maniera distorta e strumentale: piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità dell’incolpato ai fatti.
Autore: Giovanni Alibrandi – Sistema Ratio Centro Studi Castelli