Garanzia del venditore-costruttore per vizi del bene compravenduto

La circostanza che il venditore sia il costruttore del bene compravenduto non gli attribuisce la veste di appaltatore nei confronti dell’acquirente. Quali sono, pertanto, le azioni da porre in essere in caso di vizi della cosa venduta? La Cassazione civile, sez. II, con la sentenza 10.10.2022, n. 29349, è intervenuta sul caso relativo alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da parte di 2 acquirenti, che avevano acquistato un immobile con un impianto di condizionamento d’aria non funzionante.

La Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata abbia correttamente osservato come l’art. 1667 c.c. (in materia di appalti) sia inapplicabile nel rapporto tra acquirente e venditore, ponendosi in linea con l’orientamento giurisprudenziale precedente, secondo cui la circostanza che il venditore sia anche il costruttore del bene compravenduto non vale ad attribuirgli la veste di appaltatore nei confronti dell’acquirente.

L’acquirente non può, pertanto, esercitare l’azione per ottenere l’adempimento del contratto d’appalto e l’eliminazione dei difetti dell’opera a norma degli artt. 1667 e 1668 c.c., spettando tale azione, di natura contrattuale, esclusivamente al committente nel contratto d’appalto, diversamente da quella prevista dall’art. 1669 c.c. di natura extracontrattuale operante non solo a carico dell’appaltatore e a favore del committente, ma anche a carico del costruttore e a favore dell’acquirente.

Piuttosto, l’acquirente deve invocare la garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1492 e seguenti del Codice Civile, con termini di decadenza e prescrizione diversi. È, quindi, importantissimo conoscere la distinzione, secondo i principi pacifici della Suprema Corte di Cassazione, delle azioni praticabili in caso di vizi del bene.

La Suprema Corte, nella sentenza in esame, è intervenuta anche in ordine alla prova incombente sul proprietario che invochi il risarcimento del pregiudizio conseguente all’ingiusta deprivazione della disponibilità di un bene immobile di sua proprietà (o sul quale eserciti il possesso), in particolare se tale pregiudizio possa ritenersi sussistente sulla base della mera prova della abusiva occupazione del cespite da parte di terzi, ovvero se necessiti dell’allegazione (e/o della prova, sia pure per presunzioni) dell’uso che il proprietario/possessore avrebbe fatto dello stesso, ove l’illecito non si fosse verificato.

I ricorrenti non avevano dedotto nemmeno di aver dovuto abbandonare l’immobile o di non averlo potuto utilizzare (in tutto o in parte) secondo la sua destinazione economica, a causa del malfunzionamento o della necessità di sostituire i condizionatori. Pertanto, l’allegata “compressione” o “limitazione” del godimento dell’appartamento, non sfociata nella perdita della disponibilità dello stesso, finisce per tradursi in un “personale disagio o sacrificio”, inquadrabile nei termini di un danno non patrimoniale, la cui risarcibilità è in radice esclusa dall’impossibilità di configurare la lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente garantito, suscettibile di attivare la tutela risarcitoria (anche) al cospetto di un inadempimento contrattuale.

Si verte, dunque, tutt’al più nel campo di quei fastidi o disagi che non assurgono al rango della gravità dell’offesa e della serietà del pregiudizio (ulteriori requisiti di risarcibilità del danno non patrimoniale), e divengono recessivi rispetto al principio di tolleranza che permea i rapporti tra i consociati.

Autore: Sistema Ratio Centro Studi Castelli

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