Nel breve periodo, l’inflazione opera positivamente sugli equilibri economici delle imprese, riducendo l’impatto del costo del lavoro sul conto economico. Comporta anche un effetto positivo sul debito finanziario che perde di valore.
L’inflazione, per assurdo, non dovrebbe avere alcun effetto sulle imprese nella misura in cui tutti i prezzi fossero istantaneamente adeguati al fine di mantenerne inalterato il valore. Ovviamente questo non è possibile, creandosi asimmetrie per cui alcuni ne traggono un vantaggio a discapito di altri, in un gioco a somma zero.
Le dinamiche inflazionistiche risultano, peraltro, poco evidenti, rendendone di difficile lettura ai più.
Basti pensare ai “Bot people”, risparmiatori che dal 1985 al 1995 investivano in titoli di Stato, credendo di avere una rendita finanziaria con cui mantenersi a fronte di un capitale disponibile. Purtroppo gli interessi che incassavano e spendevano non erano sufficienti a compensare il deprezzamento del capitale, con l’effetto reale di utilizzare parte del capitale per vivere.
Le imprese, almeno nel breve periodo, stanno beneficiando dell’inflazione che consente di accrescere i margini di profitto. In generale, salvo situazioni di debolezza o accordi contrattualizzati, l’incremento di prezzo di materie prime e di servizi viene ribaltato da un’impresa all’altra, fino a colpire il consumatore finale. Quest’ultimo, ovviamente, acquisterà quantità inferiori di beni secondo le curve della domanda. La sua risposta non è però immediata, dovendo adeguare il proprio stile di vita, con la conseguenza che il crollo atteso dei consumi avverrà con un “lag di tempo”.
Le quantità vendute sono a oggi, pertanto, rimaste sostanzialmente invariate a fronte di prezzi crescenti, con un conseguente miglioramento percentuale del valore aggiunto, pari all’inflazione, meglio dell’inflazione o peggio dell’inflazione, a seconda della forza commerciale espressa nella catena del valore.
Il costo del lavoro nella struttura produttiva ha continuato, invece, ad assorbire sempre la stessa quota di valore aggiunto, in termini assoluti, come prima dell’inflazione, non essendo previsti meccanismi automatici di adeguamento salariale.
In buona sostanza, le imprese stanno ricevendo un taglio sul costo del lavoro pari all’inflazione che l’Istat ha stimato in giugno all’8% su base annua.
Ne deriva a favore del capitale un “mark up” sul valore aggiunto nella forma di maggiori utili.
Le imprese indebitate, inoltre, traggono vantaggio dalla riduzione del valore del debito finanziario sottoscritto, in quanto attualmente pagano tassi di interesse mediamente assai inferiori rispetto al suo deprezzamento inflattivo, grazie alla liquidità presente sul sistema per le passate politiche espansive delle banche centrali, che rendono il denaro ancora una merce abbondante.
Autore: Simone Rastelli – Sistema Ratio Centro Studi Castelli