Impresa familiare e convivente more uxorio

Con l’ordinanza interlocutoria 24.01.2023, n. 2121 la Corte di Cassazione afferma l’estendibilità della disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. anche al convivente more uxorio, per rapporti che precedono la novella introdotta dall’art. 1, c. 46 L. 76/2016.

Si ricorda che, per tale figura, non familiare stricto sensu e non riconducibile testualmente al vincolo parentale individuato dalla già richiamata disciplina, è oggi prevista una norma specifica, ovvero quella di cui all’art. 230-ter c.c., in vigore dal 5.06.2016. Tale disciplina prevede che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”.

Tuttavia, preme sottolineare come la dottrina, a lungo, abbia dibattuto sulla possibilità (o necessità) di estendere al convivente more uxorio le tutele e garanzie dell’art. 230-bis c.c., diverse e maggiori rispetto a quelle contenute nell’intervento “fratello”, ovvero quello di cui all’art. 230-ter c.c., sia per i periodi precedenti rispetto a quest’ultimo intervento normativo, sia per i periodi successivi. Sulla questione, preme rimarcare come le tutele previste dalle 2 discipline siano curiosamente diverse, sebbene frutto di una medesima volontà del legislatore, ossia garantire salvaguardia e protezioni per il lavoratore familiare. Le discussioni in dottrina, peraltro, si sono sviluppate sempre in parallelo rispetto agli ondivaghi orientamenti giurisprudenziali, mai univoci nel consegnare una direzione rettilinea agli interessati.

Di seguito, si riportano alcuni estratti della citata ordinanza n. 2121/2023, sia al fine di evidenziare la mutevolezza della giurisprudenza in materia, sia al fine di circoscrivere il recente intervento della Cassazione.

“Non ignora il Collegio che questa Corte, in passato, ha statuito che presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (così Cass. civ., sez. II, 29.11.2004, n. 22405). Sempre questa Corte già in precedenza aveva affermato che l’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è, pertanto, insuscettibile di interpretazione analogica.

Di conseguenza, era stata ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima”. E sebbene “Tale linea interpretativa è indubbiamente aderente alla lettera dell’art. 230-bis c.c.”, l’introduzione dell’istituto dell’impresa familiare risponde “alla meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari”. Volendosi, quindi, dare una lettura tanto agli artt. 2, 3, 4, 35 e 37, Cost., quanto all’art. 8 CEDU, ne risulta che “il convivente more uxorio ancorché non possa qualificarsi come “familiare”, tuttavia, può essere meritevole di ottenere la tutela minima e inderogabile offerta dall’art. 230-bis c.c. a tutela del proprio diritto fondamentale al lavoro”. E, con tale operazione, “Non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio, ma di riconoscere un particolare diritto alla convivente more uxorio e ripristinare ragionevolezza all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione residuale e suppletiva”.

Ulteriormente, afferma la Corte, “In questa prospettiva non può non considerarsi l’evoluzione che si è avuta nella società” e, pertanto, si ritiene “di dover rimettere gli atti al Primo Presidente di questa Corte per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite civili, per la soluzione della seguente questione di massima di particolare importanza”, ovvero “se l’art. 230-bis, c. 3 c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell’evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all’art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”.

In conclusione, alcune considerazioni critiche: nel merito, l’estensione della portata della disciplina di cui all’art. 230-bis c.c. si ritiene non possa che essere ben accetta, al fine di fornire maggiori tutele e salvaguardie; nel tecnico, non si può che evidenziare l’ennesimo orientamento giurisprudenziale che, pur ponendosi nel solco di ulteriori simili pronunce, porta a riconoscere la necessità di una riscrittura della norma, dai più considerata ambigua e sibillina, pur nella sua evidente importanza.

Autore: Sistema Ratio Centro Studi Castelli

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