Da un modello sociale a piramide stiamo passando, da vent’anni, a quello a clessidra, con la scomparsa del ceto medio. Quale impatto avrà sul mondo del lavoro questo andamento che nessuno cerca di contrastare.
Da piramide a clessidra; il ceto medio che sta scomparendo; un ascensore sociale già lentissimo in Italia, ma che adesso sta rischiando di bloccarsi completamente: rappresentano il peggior pericolo per il modello sociale che abbiamo costruito nel secolo scorso. Offrire la possibilità di riscatto sociale ai meno abbienti è stato il miglior incentivo per molte persone, inclusa la prima ondata di immigrazione arrivata in Italia negli anni ’90, con l’obiettivo di integrarsi e avere quelle opportunità lavorative e sociali che i Paesi di origine non potevano offrire. Diventare parte del “ceto medio” era un obiettivo perseguito e raggiungibile.
Purtroppo, il modello finanziario e la nascita e lo sviluppo del web sono fenomeni che tendono ad accentuare le differenze economico-finanziarie. E così il modello a piramide si trasforma, negli anni e nei decenni, in un modello a clessidra, dove le possibilità di salire di livello sociale sono quasi inesistenti. La maggiore causa di questa situazione è individuata nel mondo del lavoro: i working poor, i diplomati e i neolaureati che aumentano il numero di chi è impossibilitato a raggiungere un livello di retribuzione “sostenibile”. Lavori mal retribuiti e precariato spingono a sfogare la rabbia verso chi si colloca nella parte superiore della società. Quando si affermava che il “ceto medio” rappresentava l’ammortizzatore sociale, si intendeva proprio questo.
E così anche il mondo del lavoro si sta sviluppando con 2 macro segmenti di lavoratori: uno a monte (ricco) e uno a valle, quest’ultimo sempre più consistente (povero). In mezzo si trova il “ceto medio” composta da professionisti sempre in minore numero e che, principalmente, tendono verso la parte bassa.
Ma quali sono gli elementi che hanno provocato questa situazione lavorativa che ha i risvolti nell’ambito sociale? Sono 2 gli elementi principali:
• introduzione delle tecnologie: con il loro ingresso il mercato del lavoro ha subito una forte polarizzazione e le aziende sono state indotte a cercare un ristretto manipolo di specialisti ultra-pagati con l’aumento di una manovalanza a basso costo;
• globalizzazione: delocalizzare ha offerto la possibilità di decentrare le attività produttive e questo ha drasticamente ridotto il potere contrattuale dei lavoratori, generando come conseguenza una forte contrazione dei salari a livello locale.
Gli effetti – Giovani, spinti dai genitori a scelte sbagliate e non più motivati a seguire un percorso di vita che parta dallo studio, affrontano il mondo del lavoro senza possibilità di investire su se stessi e sulle opportunità di mercato; vivono l’azienda come una situazione da sfruttare senza volontà di fidelizzarsi; vivono il precariato come una condizione irreversibile; sfogano la propria rabbia contro tutto ciò che è diverso (abbienti; immigrati visti come un pericoloso concorrente; culture e religioni differenti; generazioni precedenti che reputano la causa del proprio malessere).
La soluzione è difficile da trovare, ma la base di partenza rimane la scuola, lo studio, l’educazione culturale. Il modello su cui si dovrebbe basare la nostra società deve prevedere una “seria ed effettiva” scolarizzazione obbligatoria fino a 16 anni, senza alcuna dispersione, affinché nessun giovane possa perdersi in quelle alternative che spesso portano anche all’illegalità. Un modello che aiuti a sviluppare capacità di intraprendenza, di (sana) competizione, di sacrificio e cancelli questa “rassegnazione sociale” che caratterizza molti giovani.
Autore: Massimo De Sanctis – Sistema Ratio Centro Studi Castelli Srl