In questo periodo molte imprese pensano di fermare l’attività come unica soluzione per comprimere i costi esagerati legati alla produzione. Ma una risposta adeguata la si potrebbe trovare anche in misure organizzative alternative.
La combinazione del caro energia con il difficile reperimento delle materie prime può comportare che la produzione abbia dei costi troppo elevati e senza che l’impresa riesca a ribaltare gli aumenti sul prezzo di vendita. Ma se riuscisse a farlo, l’esclusione dal mercato di riferimento diventerebbe certa a causa dei prezzi non più concorrenziali con gli altri competitors di settore.
Le imprese, soprattutto in determinati settori, stanno pianificando di fermare la produzione per evitare che l’aumento incontrollato dei costi azzeri i margini di profitto, nonostante il portafoglio pieno di ordini. Ciò consentirebbe loro di risparmiare sui costi aziendali legati alle utenze ed al funzionamento dei macchinari, a scapito però dei lavoratori che potrebbero finire in cassa integrazione, con i disagi economici che ne conseguirebbero per entrambe le parti. Infatti, finita l’era emergenziale Covid che consentiva l’accesso alla cassa integrazione in modo libero e gratuito, ora i datori di lavoro che intendono richiederla devono documentare le difficoltà in cui si trovano e versare all’INPS una contribuzione aggiuntiva proporzionata alle ore di riduzione del lavoro.
Senza dimenticare che la crisi energetica, a tal fine, non è considerata emergenziale ed è diventata causale integrabile dallo scorso mese di aprile (grazie al D.M. del Ministero Lavoro n.67/2022 che ha modificato la precedente disciplina del DM 95442/2016) ma solo per le imprese energivore. E le altre? Potranno rifarsi alla circolare 97/2022 in cui l’INPS precisa che nella relazione tecnica dovranno invocare la crisi di mercato descrivendo la situazione aziendale,dettagliando eventi, calcolando indici finanziari e documentando con precisione gli elementi che hanno influito sull’andamento involutivo dell’attività produttiva.
Perché allora non valutare prima una riorganizzazione lavorativa? Le imprese potrebbero ricorrere alla flessibilità oraria previa stipula di un contratto collettivo aziendale con i sindacati in cui stabilire una diversa articolazione dell’orario di lavoro, nel rispetto del limite di 40 ore settimanali.
Ad esempio, l’ipotesi di lavorare 10 ore per 4 giorni consentirebbe alle imprese di tenere chiuso per 3 giorni (anche consecutivi, se si considerano sabato e domenica) con i risparmi che ne conseguirebbero in termini di riscaldamento/condizionamento e fermo macchine. Tale soluzione è possibile in quanto rispetta il riposo giornaliero fissato dal D. Lgs. 66/2003 di almeno 11 ore ed è a costo zero in quanto non prevede maggiorazioni sul costo del lavoro (le maggiori ore di lavoro sarebbero compensate dal giorno aggiuntivo di non lavoro, ugualmente retribuito).
Con la contrattazione collettiva aziendale è anche possibile introdurre l’orario “multiperiodale” per le imprese con organizzazione del lavoro programmabile, concordando una riduzione di orario nei periodi di minore attività e recuperando le ore non lavorate nei periodi di attività più intensa, rispettando l’orario medio di 48 ore settimanali (straordinario compreso). Dal punto di vista economico, il lavoratore riceverà comunque una retribuzione mensilizzata la cui eccedenza, nei periodi di minor lavoro, sarà compensata dal maggior lavoro prestato successivamente ma retribuito in uguale misura. La preventiva programmazione di questa articolazione oraria è indispensabile sia ai fini dei controlli ispettivi, che per garantire al dipendente un equilibrio organizzativo tra vita privata e attività lavorativa.
Autore: Roberta Jacobone – Sistema Ratio Centro Studi Castelli