Anche l’impiegato amministrativo può rispondere dei reati tributari

Le sentenze della Suprema Corte, oltre che strumento di lavoro per gli operatori del diritto, forniscono anche indicazioni circa le condotte aventi rilevanza penale nell’ambito della gestione d’impresa. Ai sensi dell’art. 8, c. 1 D.Lgs. 74/2000 costituisce reato l’emissione o rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Fenomeno conosciuto pure con la definizione di frodi carosello poste in essere dalle società c.d. cartiere.

Risponde di concorso nel reato di cui sopra anche l’impiegato amministrativo della società che metodicamente emette documenti fiscali falsi finalizzati a favorire l’evasione delle imposte da parte di terzi. Nel caso specifico, un gruppo di società scambiavano tra loro fatture per operazioni inesistenti finalizzate all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto; l’impiegata amministrativa di una di tali società, sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, veniva condannata per concorso nel reato ex art. 110 c.p.

Nel proporre ricorso per Cassazione, l’impiegata asseriva di essere “una semplice impiegata, assunta con contratto di lavoro subordinato” e, come tale, “si era limitata a compilare le fatture in immediata attuazione delle direttive ricevute dal titolare dell’impresa”. Pertanto, non avendo alcun interesse alla gestione dell’azienda per cui lavorava, non poteva aver agito con dolo specifico. In altri termini, poiché aveva agito secondo le direttive impartite dal proprio datore di lavoro, non poteva essere considerata rea. Dalle indagini era comunque emerso il ruolo attivo dell’impiegata nella gestione dei documenti contabili, oltre che la sua attività di coordinamento verso gli altri dipendenti.

Con la sentenza n. 19213/2019 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’impiegata amministrativa argomentando che già la Corte d’appello aveva evidenziato il “preciso contributo materiale, se non anche morale, della ricorrente nella realizzazione dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti”; nello specifico, tale contributo materiale era individuabile “nell’attività di compilazione delle false fatture, nel più vasto ambito di un continuativo compimento di operazioni amministrative e finanziarie”. Operazioni che in un ampio arco di tempo avevano consentito alle società cartiere di essere formalmente attive e quindi emettere le false fatture contestate.

Circa il dolo, tralasciando l’insieme delle argomentazioni addotte dai giudici di Cassazione, questo era ravvisabile “nella coscienza e volontà di partecipare alla sistematica emissione di innumerevoli fatture relative ad operazioni inesistenti”, nella consapevolezza che l’emissione era funzionale “a consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto”.

Nel rammentare che l’art. 27 della Costituzione sancisce che la responsabilità penale è personale, ossia chi commette un reato ne risponde personalmente, pur nel rispetto dell’equilibrio dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore, questa vicenda insegna che in ogni caso è bene che il lavoratore si astenga dal compiere atti illeciti che gli sono imposti dal datore di lavoro. Soprattutto se, in base alla sua esperienza, è consapevole di commettere un reato.

Le sentenze della Suprema Corte, oltre che strumento di lavoro per gli operatori del diritto, forniscono anche indicazioni circa le condotte aventi rilevanza penale nell’ambito della gestione d’impresa. Ai sensi dell’art. 8, c. 1 D.Lgs. 74/2000 costituisce reato l’emissione o rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Fenomeno conosciuto pure con la definizione di frodi carosello poste in essere dalle società c.d. cartiere.

Risponde di concorso nel reato di cui sopra anche l’impiegato amministrativo della società che metodicamente emette documenti fiscali falsi finalizzati a favorire l’evasione delle imposte da parte di terzi. Nel caso specifico, un gruppo di società scambiavano tra loro fatture per operazioni inesistenti finalizzate all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto; l’impiegata amministrativa di una di tali società, sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, veniva condannata per concorso nel reato ex art. 110 c.p.

Nel proporre ricorso per Cassazione, l’impiegata asseriva di essere “una semplice impiegata, assunta con contratto di lavoro subordinato” e, come tale, “si era limitata a compilare le fatture in immediata attuazione delle direttive ricevute dal titolare dell’impresa”. Pertanto, non avendo alcun interesse alla gestione dell’azienda per cui lavorava, non poteva aver agito con dolo specifico. In altri termini, poiché aveva agito secondo le direttive impartite dal proprio datore di lavoro, non poteva essere considerata rea. Dalle indagini era comunque emerso il ruolo attivo dell’impiegata nella gestione dei documenti contabili, oltre che la sua attività di coordinamento verso gli altri dipendenti.

Con la sentenza n. 19213/2019 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’impiegata amministrativa argomentando che già la Corte d’appello aveva evidenziato il “preciso contributo materiale, se non anche morale, della ricorrente nella realizzazione dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti”; nello specifico, tale contributo materiale era individuabile “nell’attività di compilazione delle false fatture, nel più vasto ambito di un continuativo compimento di operazioni amministrative e finanziarie”. Operazioni che in un ampio arco di tempo avevano consentito alle società cartiere di essere formalmente attive e quindi emettere le false fatture contestate.

Circa il dolo, tralasciando l’insieme delle argomentazioni addotte dai giudici di Cassazione, questo era ravvisabile “nella coscienza e volontà di partecipare alla sistematica emissione di innumerevoli fatture relative ad operazioni inesistenti”, nella consapevolezza che l’emissione era funzionale “a consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto”.

Nel rammentare che l’art. 27 della Costituzione sancisce che la responsabilità penale è personale, ossia chi commette un reato ne risponde personalmente, pur nel rispetto dell’equilibrio dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore, questa vicenda insegna che in ogni caso è bene che il lavoratore si astenga dal compiere atti illeciti che gli sono imposti dal datore di lavoro. Soprattutto se, in base alla sua esperienza, è consapevole di commettere un reato.

Foto: archivio Qdpnews.it
Autore: Giovanni Alibrandi – Sistema Ratio Centro Studi Castelli

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