Reddito di cittadinanza: poche luci e tante ombre

Un primo bilancio pone in evidenza i limiti e le criticità di uno strumento nato per contrastare la povertà e ridurre la disoccupazione.

A quasi 2 anni di distanza dall’entrata in vigore del reddito di cittadinanza, avvenuta nel marzo del 2019, è possibile tirare le prime somme sull’efficacia della misura in questione, nata, ricordiamolo, con un duplice intento: contrastare la povertà e aumentare l’occupazione. Diciamo subito che su questo secondo fronte i risultati sono stati pressoché nulli, dal momento che sino a oggi solo pochissimi fortunati hanno trovato lavoro.

Le ragioni di un risultato così deludente sono molteplici e vanno dall’inefficienza dei Centri per l’impiego alla scarsa occupabilità dei destinatari dovuta a età avanzata, problemi di salute, bassa istruzione o altro ancora. Non hanno neppure funzionato i cosiddetti Puc (progetti utili alla collettività) posti in capo ai Comuni, che prevedono la possibilità di utilizzare i percettori del reddito in attività di interesse artistico, culturale, sociale, formativo e ambientale. Hanno pesato in questo caso i numerosi vincoli e limiti posti dalla normativa per evitare il ripetersi dei fenomeni di precarietà accaduti in passato con gli Lsu (lavoratori socialmente utili), vale a dire quei lavoratori posti in Cigs che furono impiegati in attività di pubblico interesse e che ancor oggi sono oggetto di costose politiche di stabilizzazione presso gli enti utilizzatori.

Non va trascurata, infine, la grave crisi recessiva di questi giorni che, in ogni caso, suggerisce tempi più lunghi per emettere un giudizio definitivo sul punto.

Sicuramente più positivi gli effetti registrati sull’altro versante della lotta alla povertà. Se non altro, in quest’ambito, il reddito di cittadinanza funge da ammortizzatore per oltre 3 milioni di cittadini che, almeno sulla carta, versano in condizioni di grave disagio, peraltro fortemente acuite dal Covid. Non mancano, tuttavia, anche qui le criticità e le contraddizioni, a cominciare dall’esclusione di larghe fasce di veri poveri costituite dalle famiglie straniere. L’opinabile scelta del primo governo Conte di stabilire un minimo di 10 anni di residenza in Italia per accedere al beneficio in questione, incide sulla situazione di molti bambini extracomunitari che così rischiano di essere dimenticati, con pesanti e rischiose conseguenze sulla loro vita da adulti. Il precedente Rei (reddito di inclusione) richiedeva soltanto 2 anni di permanenza nel nostro Paese.

Il reddito di cittadinanza è dunque destinato quasi esclusivamente a cittadini italiani, molti dei quali, diciamocelo francamente, tanto poveri non sono: in primo luogo, per i noti problemi legati all’economia sommersa, se non addirittura criminale, che da sempre affliggono la nostra società; secondariamente per la suddivisione in 2 quote, di cui una riservata agli affittuari, che rende di fatto irrilevante il reddito figurativo derivante dall’abitazione di residenza o da altri fabbricati per la determinazione della capacità contributiva ed economica del nucleo familiare.

Va da ultimo stigmatizzato il carattere indifferenziato dell’assegno e delle soglie d’accesso, che non tiene in alcun conto le profonde diversità esistenti tra nord, centro e sud del Paese. Si vedono, insomma, ampi margini di intervento per correggere le descritte distorsioni e rendere tale strumento veramente equo e solidale.

Autore: Giovanni Pugliese – Sistema Ratio Centro Studi Castelli Srl

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