Rivolgere accuse infondate a un collega è reato e l’azienda è obbligata al risarcimento del danno se non è intervenuta per garantire la serenità del dipendente: così ha deciso la Corte di Cassazione con una sentenza del dicembre 2020.
La Corte d’Appello di Ancona, nella sentenza che ha confermato di fatto una decisione del Tribunale di Fermo, che aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria ad una dipendente vittima di mobbing alla quale è stato inoltre riconosciuto il diritto alla reintegra, ha osservato che nella fattispecie “assume rilievo il fatto che il rappresentante legale della società datrice sia stato messo al corrente dei reiterati episodi mobbizzanti posti in essere nei confronti della dipendente, ma non abbia voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli dalla dipendente stessa”; ha inoltre giudicato gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai colleghi della vittima “idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, nei termini sintetizzati dall’ormai costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 24358/2017), sussistendo tanto il requisito oggettivo, quanto quello soggettivo (il primo, costituito dalla pluralità di atti o fatti, caratterizzati da sistematicità, si è concretizzato con tutta evidenza, data la quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i dipendenti mortificavano la vittima; il secondo risulta provato, invece, dall’offensività dei termini utilizzati e dalle accuse assolutamente infondate dirette alla lavoratrice, suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della stessa)”; e, infine, la stessa Corte d’Appello ha certificato che “sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 C.C.”.
La Cassazione, adita dal datore di lavoro, ha respinto il ricorso richiamando l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza più attente, che sancisce che “le disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato, in considerazione del fatto che l’attività produttiva – anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, c. 1 Cost.) – è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, all’utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”.
Da ciò consegue che la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione di misure atte a preservare i lavoratori dalle lesioni di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio“.
Misure che, nel caso in esame, non sono state adottate dal datore di lavoro, che pertanto è stato correttamente ritenuto responsabile dalla sentenza d’Appello confermata.
Autore: Giorgia Granati – Sistema Ratio Centro Studi Castelli Srl
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