La verifica in merito all’idoneità della condotta a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario resta appannaggio del Giudice di merito, il che consegna ben poche certezze all’impresa.
Nell’ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari, la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude che le previsioni collettive si configurino quale fonte vincolante in senso sfavorevole al dipendente. L’esistenza di una nozione legale di giusta causa (e di giustificato motivo soggettivo), infatti, comporta che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del Giudice di merito, da svolgere avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie.
In relazione a detta attività, la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. e, in questa prospettiva, è stata ritenuta insufficiente un’indagine limitata alla verifica della riconducibilità del fatto addebitato alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Le previsioni dei contratti collettivi hanno, in altri termini, valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del Giudice di merito in ordine all’idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore.
Quanto sopra non può, all’evidenza, che ingenerare incertezza nell’impresa che si trovi a dover valutare se una condotta, pur astrattamente sussumibile entro una delle relative ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, sia effettivamente idonea a giustificare l’irrogazione di un licenziamento.
Da questo punto di vista, il caso della sottrazione da parte del dipendente di beni aziendali di modico valore è eloquente in quanto, in argomento, si registrano tre differenti orientamenti giurisprudenziali:
● a mente di un primo orientamento è sempre necessario prendere in considerazione il valore economico del bene oggetto di appropriazione da parte del dipendente, in ragione del principio di offensività del reato di matrice penalistica;
● un secondo orientamento, di contro, evidenzia come non si debba considerare il valore del bene appropriato, ma la gravità insita nella condotta: la sottrazione di un bene è sempre in grado di ledere l’elemento fiduciario, in relazione al corretto adempimento delle mansioni nella prosecuzione del rapporto;
● idealmente a metà strada fra questi due orientamenti se ne pone un terzo, in ragione del quale lo scarso valore commerciale del bene, pur avendo un suo rilievo, può essere considerato come scriminante solo se corroborato da altri elementi quali l’assenza di precedenti specifici e che l’appropriazione sia avvenuta, per così dire, “alla luce del sole”, senza accorgimenti da parte del lavoratore volti a nascondere quanto commesso.
Autore: Andrea Sterli – Sistema Ratio Centro Studi Castelli