Un bel passo in avanti, ma una totale parificazione tra lavoratori e lavoratrici non è stata ancora raggiunta.
Volendo, una volta tanto, parlare di “pari opportunità al maschile”, vale la pena richiamare 2 norme del nostro sistema giuslavoristico che appaiono discriminatorie nei confronti degli uomini, in quanto poste a esclusivo beneficio delle donne.
Tali norme sono: l’art. 35 D.Lgs. 198/2006 che dispone la nullità del licenziamento della lavoratrice a causa di matrimonio nel lasso di tempo intercorrente tra la richiesta di pubblicazione sino a un anno dopo la celebrazione delle nozze; l’art. 54 D.Lgs. 151/2001 che vieta il licenziamento della lavoratrice madre nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno del bambino.
Il recente D.Lgs. 105/2022 ha fatto cadere il secondo “tabù”, estendendo al lavoratore padre la medesima tutela prevista per la madre, facendola però decorrere dal primo giorno di fruizione del nuovo congedo di paternità obbligatorio.
Ovviamente, rispetto a tale divieto vigono le medesime eccezioni previste per la lavoratrice madre, vale a dire: scadenza del contratto a tempo determinato o ultimazione della prestazione per la quale il lavoratore è stato assunto; colpa grave; cessazione dell’attività aziendale; esito negativo del patto di prova.
Al di fuori di queste ipotesi, il licenziamento comminato è da considerarsi nullo e ha come conseguenze fondamentali: la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno che non può essere inferiore a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto; l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Inoltre, al lavoratore che ha fruito del congedo di paternità spettano in ogni caso gli altri 2 benefici previsti dalla legge, vale a dire la NASPI e l’indennità di preavviso.
Posta, dunque, l’intervenuta parificazione del padre lavoratore con la madre permane ancora un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dello sposo.
Interpellata sul punto, la Cassazione ha fornito, con la sentenza 13.11.2018, n. 28926, una spiegazione tutt’altro che convincente, legandola alla “complessità del rapporto tra madre e figlio nel primissimo periodo di vita, con riguardo non solo ai bisogni più propriamente biologici, ma anche alle esigenze di carattere relazionale e affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino”, e dimostrando così di considerare l’istituto matrimoniale come una sorta di “incubatoio” della maternità.
Ora, a parte che il matrimonio è sempre più percepito come una libera dimensione della vita affettiva e di relazione, spesso slegata dalla procreazione, la valutazione operata dagli Ermellini, tutta incentrata sulla protezione della maternità, in realtà va contro quella logica di una più equa redistribuzione dei ruoli familiari, che poi è anche lo spirito del richiamato D.Lgs. 105/2022.
È dunque da auspicare un analogo intervento del legislatore per la fattispecie matrimoniale.
Autore: Giovanni Pugliese – Sistema Ratio Centro Studi Castelli