Dolce sentire

A volte bisogna proprio riprendere in mano, e prima ancora in mente, passaggi che hanno segnato la storia dei generazioni, come la canzone “Fratello Sole Sorella Luna”, basata sul Cantico delle creature di San Francesco, composta dal sacerdote francese Jean Marie Benjamin, musicata da Riz Ortolani, e interpretata da Claudio Baglioni per la colonna sonora del film dal titolo omonimo dell’ormai 1972, diretto dal celebre regista Franco Zeffirelli.

In quel “dolce sentire” che inaugura il testo del famoso motivo musicale, preso letteralmente a prestito in quest’occasione – e ci scusiamo magari per l’accostamento che potrebbe sembrare non proprio consono e appropriato – vorremmo in qualche modo tradurre ed esplicitare un’aspirazione precisa, un desiderio profondo, un’esigenza molto avvertita, e non da pochi: un linguaggio fra le persone liberato finalmente dalla schiavitù della volgarità, delle parolacce, dell’impudicizia, purtroppo molto frequenti ai giorni nostri. 

Qui non si tratta di essere bacchettoni, vetero testamentari o nostalgici delle belle maniere di un tempo ormai tutto trascorso. Si tratta invece di una lezione di civiltà, perché la parola che fa l’uomo pensante un essere superiore nella realtà del creato, non può diventare oggi la spia di un modo di intendere la vita fatta di continue concessioni verbali al trionfo della categoria dell’ “osceno”.          

Esso deriva dal latino “obscenus”, che veniva usato per indicare qualcosa di infausto, disgustoso, o indecente. Il lemma latino proviene a sua volta dal greco antico skenè, ovvero “scena/spazio scenico”, e ob, che funge da negazione, ossia fuori scena. Fuori contesto. Inadatto. Eppure, ben presente nelle affermazioni, nei colloqui, negli scambi di battute triviali e fuori luogo, quasi a ribadire oggi che se non stai al passo con i tempi, quelli in degrado, intendiamoci, sei veramente “out”, fuori dal giro, incapace di esistere nella modernità. Lo mette in rilievo con una serie di osservazioni del tutti condivisibili anche don Chino Pezzoli, della cooperativa sociale “Promozione Umana onlus”: “Il tempo passa e con esso sembra che se ne vada anche il buonsenso che, in passato, ha favorito tra gente, la buona educazione. A che serviva? A fissare i limiti del linguaggio e dei comportamenti, a non compromettere la dignità propria e altrui.

Quando passo accanto ad alcuni giovani seduti davanti a un bar con le gambe a penzoloni e la bottiglia di birra in mano, ricevo un insieme di parolacce che – anche se non turbano la mia mente ormai avvezza a questi suoni o linguaggi – m’infastidiscono. Mi si dice che è il nuovo linguaggio ormai legittimato dai mezzi di comunicazione web e “social”, che  riceve e diffonde un insieme di parolacce e termini scurrili con una certa frequenza da assicurare un “impianto” di oscenità mentale nei piccoli e nei grandi. Parolacce, insulti, volgarità … Se questo si verifica e si giustifica pure con una certa spavalderia, è motivo di seria preoccupazione … Se questa è la mentalità che deve diffondersi, si vada pure avanti con quella millanteria tipica delle persone stolte. La stoltezza può diventare valore in un contesto di permissivismo e di mancanza d’identità. Chi non sa che cosa e come comunicare, ogni espediente viene ritenuto originale, incisivo. In altre parole, si diventa importanti se si grida e s’insulta.

Purtroppo questa mentalità trova seguaci e tifosi …”. Certo, intendiamoci: nella letteratura, come nel parlato, ci possono essere termini e citazioni sorridenti e colorite, che usate in dosi contenute possono dare sapore e simpatia divertente al contesto. Il problema nasce quando parolacce e insulti non si limitano a completare il lessico, ma lo sostituiscono in toto, abbassando il livello espressivo generale. Accade nella vita pubblica come nelle relazioni private, due ambiti che lo smodato uso dei social network tende pericolosamente a sovrapporre.

Per non parlare di come poi gli eccessi diventino assolutamente  insostenibili, deprecabili e censurabili quando si sconfina nella bestemmia, un vezzo orribile purtroppo ancora molto diffuso, anche in ambienti insospettabili, tra le persone mature ma anche tra i i giovani, e pure al femminile. Un dispiacere enorme, una tristezza infinita, un senso di impotenza che genera come reazione l’inquietudine e la rabbia per il livello insopportabile di queste “conversazioni” tra persone magari anche titolate, ben posizionate socialmente a fronte di studi importanti e di ruoli riconosciuti.            

E’ come se un tarlo si fosse insinuato proprio in quella che dovrebbe essere per eccellenza l’espressione migliore della persona umana, ossia il pensiero trasmesso ai proprio simili, la parola che è significato e vita, rispetto e dialogo, gentilezza e condivisione. Altrimenti, si esce dal campo dell’umanità in pienezza, pacifica e buona, e si entra nelle dimensioni deteriori dell’uomo “lupo all’altro uomo”, che pronuncia parole pronte a ferire, offendere, umiliare, deturpare. Parole come pietre, possibile premessa a un conflitto di violenza fisica, a partire da quella verbale, appunto. E’ più che mai necessario stabilire un argine, porre un freno, limitare questa pessima abitudine: ne va della nostra civiltà di uomini e donne, dentro un contesto sociale che non si rassegni al primato negativo del linguaggio inaccettabile, foriero di mali ancora più gravi.

L’educazione in alleanza tra tutti i soggetti coinvolti per la formazione dei giovani, a partire dalla famiglia, torni a fare la sua parte: solo così il “dolce sentire” non sarà più una chimera, ma diventerà una bella realtà condivisa, l’espressione manifesta di un nuovo umanesimo di ecologia dello spirito e di bellezza interiore.  

(Foto: archivio Qdpnews.it)
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