Oggi è la giornata mondiale della fauna selvatica: Colmare il divario tra Scienza e “Pratica”

In occasione della Giornata Mondiale della Fauna Selvatica 2025, con il suo tema “Wildlife Conservation Finance: Investing in People and Planet“, emerge con forza la necessità di esaminare criticamente l’approccio italiano alla gestione faunistica. Questa ricorrenza offre lo spunto ideale per riflettere su quanto la scienza, in particolare la Biologia della Conservazione, dovrebbe essere il fondamento di ogni decisione riguardante la fauna selvatica e la biodiversità. Purtroppo, nel contesto italiano, si osserva un preoccupante divario tra conoscenza scientifica e prassi gestionale.

L’Italia, pur essendo un paese straordinariamente ricco di biodiversità, mostra un approccio alla gestione faunistica caratterizzato da frammentarietà e incoerenza. Le decisioni appaiono spesso dettate più da pressioni politiche e lobbistiche che da evidenze scientifiche, con conseguenze negative sia per gli ecosistemi che per l’economia nazionale. La legge quadro 157/1992, che definisce la fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello Stato, offre in teoria un solido impianto normativo, ma la sua attuazione pratica rivela numerose criticità.

Il decentramento delle competenze alle Regioni, potenzialmente positivo per adattare le strategie ai contesti locali, ha invece generato un mosaico disomogeneo di regolamenti e piani faunistico-venatori, spesso privi di coerenza nazionale e, soprattutto, di fondamento scientifico. Questa frammentazione normativa e gestionale impedisce di affrontare efficacemente problematiche che, per loro natura, trascendono i confini amministrativi regionali.

La gestione del Cinghiale (Sus scrofa) rappresenta un caso emblematico di questo scollamento tra scienza e “pratica”. Nonostante gli studi scientifici abbiano dimostrato che gli abbattimenti non selettivi possano paradossalmente aggravare il problema demografico della specie, molte amministrazioni regionali continuano a rispondere alle pressioni del mondo agricolo e venatorio con abbattimenti massivi che, assieme alla pratica del foraggiamento artificiale, rappresentano una contraddizione che vanifica qualsiasi tentativo di controllo efficace. La recente diffusione della Peste Suina Africana (PSA) (ne abbiamo scritto qui e qui) in diverse regioni italiane sta drammaticamente evidenziato i costi di questa gestione inadeguata: i danni all’export di insaccati e prosciutti italiani hanno già superato diverse centinaia di milioni di euro, con stime che prospettano perdite miliardarie qualora l’infezione dovesse diffondersi ulteriormente. Questi impatti economici devastanti sul comparto agroalimentare italiano, fiore all’occhiello dell’economia nazionale, rendono non più procrastinabile un’inversione di rotta verso approcci gestionali scientificamente fondati, che integrino controllo demografico selettivo, gestione dell’habitat e severe restrizioni alle pratiche controproducenti.

Affidare il controllo demografico delle specie problematiche alla sola attività venatoria, oltre ad ignorare la conoscenza scientifica, rappresenta una fallacia strategica che ignora tanto i dati demografici quanto l’evidenza empirica. Il mondo venatorio italiano è caratterizzato da un inesorabile declino numerico e da un progressivo invecchiamento: gli attuali cacciatori sono scesi sotto la soglia delle 500.000 unità, con un’età media che si colloca nella fascia dei 60-70 anni. Questo profilo demografico, in costante contrazione, rende strutturalmente inadeguato l’approccio venatorio come strumento primario di gestione faunistica su vasta scala. Confidare in questa soluzione non solo quindi disattende ogni principio tecnico-scientifico di gestione adattativa, ma costituisce un’ingenuità decisionale dalle costose conseguenze.

L’esempio paradigmatico di questa miopia gestionale si ritrova nel caso della Nutria (Myocastor coypus), dove anni di tentativi di contenimento affidati principalmente all’attività venatoria hanno prodotto risultati ampiamente inefficaci a fronte di investimenti considerevoli. Le popolazioni di questo roditore alloctono hanno continuato ad espandersi territorialmente e demograficamente nonostante gli abbattimenti, generando danni crescenti agli ecosistemi e alle attività agricole. Perseverare in questo approccio anacronistico equivale a reiterare strategie già dimostratesi fallimentari, ignorando deliberatamente le lezioni che l’esperienza gestionale e la ricerca scientifica hanno ampiamente documentato.

Analogamente controversa è la gestione del Lupo (Canis lupus), specie protetta che è tornata naturalmente a colonizzare gran parte del territorio italiano. Anziché investire sistematicamente in misure preventive scientificamente validate, come recinzioni elettrificate, cani da guardiania e gestione appropriata del pascolo, il dibattito si polarizza ciclicamente sulla proposta di abbattimenti, presentati come soluzione rapida nonostante manchino evidenze a supporto della loro efficacia nel ridurre i conflitti con le attività zootecniche.

La situazione degli uccelli migratori rivela ulteriori incongruenze. I calendari venatori vengono frequentemente estesi oltre i limiti raccomandati dall’ISPRA, l’istituto tecnico-scientifico che dovrebbe orientare le decisioni regionali. Le amministrazioni spesso disattendono i pareri scientifici dell’ISPRA, privilegiando le richieste del mondo venatorio anche quando queste confliggono apertamente con le evidenze scientifiche sulla sostenibilità dei prelievi o sui periodi sensibili di migrazione e riproduzione.

Persino le aree protette, che dovrebbero essere i laboratori d’eccellenza per la conservazione basata sulla scienza e la gestione adattativa, non sono immuni da contraddizioni. I consigli direttivi di parchi nazionali e regionali risentono spesso di logiche politiche che possono prevalere su considerazioni scientifiche. Non è raro che progetti infrastrutturali potenzialmente dannosi per gli ecosistemi vengano approvati all’interno di aree teoricamente tutelate, con valutazioni d’impatto ambientale ridotte a meri adempimenti burocratici piuttosto che utilizzate come autentici strumenti decisionali.

Un aspetto particolarmente critico del sistema italiano è la carenza di programmi sistematici di monitoraggio, sia delle popolazioni selvatiche che dell’efficacia degli interventi gestionali. Questa lacuna impedisce lo sviluppo di una vera gestione adattativa, dove i risultati del monitoraggio dovrebbero informare e modificare le strategie future. Troppo spesso gli interventi vengono realizzati senza una valutazione rigorosa ex-post, rendendo impossibile apprendere dall’esperienza e migliorare progressivamente le pratiche gestionali.

Le conseguenze di questo approccio non scientifico sono gravi e multiformi. Dal punto di vista ecologico, assistiamo al declino di numerose specie e al degrado di habitat cruciali, come testimoniato dalla Lista Rossa IUCN che classifica come minacciate circa il 31% delle specie di vertebrati italiani. Sul piano economico, una gestione inefficace genera costi enormi: dai danni all’agricoltura causati da specie come il cinghiale (stimati in oltre 100 milioni di euro annui dati Coldiretti), ai costi dei risarcimenti per predazioni sul bestiame, fino agli investimenti in interventi gestionali che non producono i risultati attesi. Anche il turismo naturalistico, potenziale volano economico per le aree interne, viene penalizzato dalla scarsa qualità ambientale e dalla perdita di opportunità di fruizione e valorizzazione del patrimonio naturale.

È possibile invertire questa tendenza? Certamente, ma occorre innanzitutto riconoscere le problematiche esistenti e adottare un linguaggio e un approccio rigorosi. È essenziale, ad esempio, chiarire che “gestione” non equivale semplicemente ad “abbattimento“, ma implica un insieme articolato di strategie tra cui l’abbattimento può essere una delle componenti, da valutare scientificamente caso per caso. 

Perseverare nell’abbattimento come soluzione automatica al controllo delle popolazioni selvatiche rappresenta un errore fondamentale: ciò che funziona con gli animali domestici fallisce con quelli selvatici, le cui dinamiche demografiche seguono regole diverse. Continuare a persistere nella confusione tra discipline come zootecnia e biologia della fauna selvatica comporta costi ecologici ed economici ormai insostenibili.

Sul piano formativo, urge potenziare la preparazione scientifica di tecnici, funzionari e decisori che operano nelle amministrazioni pubbliche e negli ambiti territoriali di caccia, superando l’approccio empirico o tradizionale ancora troppo diffuso. Parallelamente, è fondamentale promuovere una maggiore alfabetizzazione ecologica tra amministratori e politici, affinché comprendano il valore di decisioni fondate su evidenze scientifiche piuttosto che su pressioni di parte.

Non meno importante è lo sviluppo di processi partecipativi informati, dove le comunità locali vengano coinvolte nelle decisioni sulla base di informazioni scientificamente accurate, superando le polarizzazioni ideologiche spesso alimentate dalla disinformazione. Cruciale risulta anche la promozione di una cultura della valutazione, dove ogni intervento gestionale venga sottoposto a monitoraggio e valutazione di efficacia, in un ciclo continuo di apprendimento e perfezionamento.

La Giornata Mondiale della Vita Selvatica 2025, focalizzata sul finanziamento della conservazione, offre l’opportunità di riflettere su come in Italia gli investimenti potrebbero essere meglio indirizzati verso pratiche scientificamente validate. Un euro investito in conoscenza gestionale, ricerca, monitoraggio e sviluppo di strategie basate su evidenze può evitare di spenderne dieci in interventi inefficaci o addirittura controproducenti. In un paese costantemente alle prese con vincoli di bilancio, l’efficienza della spesa pubblica dovrebbe essere prioritaria anche nel settore della conservazione.

Il patrimonio di biodiversità italiano costituisce non solo un valore ecologico, ma anche una risorsa economica e culturale inestimabile. Tutelarlo adeguatamente richiede il superamento dell’attuale frattura tra scienza e gestione, riconoscendo che solo decisioni fondate su solide evidenze scientifiche possono garantire la conservazione efficace della fauna selvatica e la sostenibilità delle attività umane che con essa interagiscono.

Il cammino è ancora lungo, ma le esperienze positive dimostrano che il cambiamento è realizzabile, se la volontà politica e l’impegno civile convergeranno nel riconoscimento del valore della scienza come bussola per le decisioni che riguardano il nostro futuro comune e quello della straordinaria diversità di vita che ci circonda.

(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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