Sarà dovuto alle fatiche della ripresa della pausa estiva. Magari, anche alle difficoltà e alle inquietudini che stiamo vivendo a livello di conflitti e di scenari internazionali. Si aggiunge probabilmente la tristezza delle notizie che arrivano in tempo reale dalla cronaca nera quotidiana, appesantita e aggravata da episodi di violenza e di conflittualità fra le persone, purtroppo a partire dai livelli familiari. Sta di fatto che in questa fase, per comune sentire e per vari report di situazioni vissute, ci sembra di poter dire che un malessere attraversi ripetutamente le relazioni interpersonali, in più sedi e in tante forme.
Tradotto: è come se la famosa espressione latina “egomet”, “io proprio io”, avesse il sopravvento su ogni altro fattore, su ogni altra possibilità, su ogni altra visione dell’esistenza. E’ come se un malcelato sentimento di primazia, di superiorità, di rivalsa e di rivincita albergasse nell’animo, nelle stile e, ahimè, anche nelle parole di persone che hanno la perenne necessità di affermare se stessi, le proprie idee, i propri indirizzi su qualsiasi altra ipotesi o declinazione possibile.
E non si tratta soltanto di caratteri più o meno forti, di sensibilità più o meno ferme e risolute rispetto ai fatti della vita e ai rapporti fra le persone: ognuno ha la propria storia e la propria fisonomia, e coltiva approcci originali rispetto ai percorsi e alle decisioni esistenziali. La questione è invece legata a qualcosa di più profondo, e sinceramente poco piacevole: l’autoreferenzialità come essenza e come metodo, quasi a voler significare la legittimità esclusiva delle proprie posizioni e delle proprie attitudini verso il mondo. Insomma, una sorta di ripiegamento verso una dorata solitudine compiaciuta, altezzosa e presuntuosa, che tutto giudica, dispone e realizza, incurante delle reazioni negative e degli effetti sfavorevoli che si producono nel tessuto sociale.
A causa di questo atteggiamento, tutto diventa complicato: i malintesi, gli screzi, le insofferenze, le contrapposizioni e la sfiducia rischiano di diventare parte integrante delle giornate di tutti coloro che si rapportano con questi soggetti dotati di grande autostima, incapaci però di comprendere il senso del limite nel suo esercizio, anche e soprattutto nel proprio interesse. In tanti ambiti, dal lavoro alle istituzioni all’associazionismo, nei quali essi esercitano delle responsabilità di rappresentanza, di guida e di coordinamento, succede che gli stessi sostituiscano il verbo “comandare” a quello del “condividere”, come se fossero investiti di un’autorità superiore, poco incline a fare i conti con la realtà delle persone che vanno accompagnate, ascoltate, comprese e coinvolte nelle decisioni e nelle attività.
E’ questo infatti il segreto del successo: l’autorevolezza di un “leader” – che “guida” i processi e le situazioni, come dice il termine inglese – deriva dall’empatia, dalla capacità di fare squadra, di costruire rapporti positivi e di fiducia con i propri collaboratori, dall’abilità nel valorizzare i talenti di ciascuno e di motivare tutti a conseguire traguardi e risultati importanti. E invece qualcuno – anche in anni moderni in cui le teorie educative e sociologiche insistono al massimo sul valore assolutamente primario delle reti, delle condivisioni e delle sinergie – pensa ancora che l’uomo “solo al comando” sia garanzia di di efficienza, di benessere e di soddisfazioni. Non c’è niente da fare: è una sorta di istinto padronale e proprietario, per cui è ammesso un unico punto di vista ed è concesso un solo “modus operandi” in grado di dare senso e sviluppo alle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”.
E’ un calcolo decisamente sbagliato, che la vita si incarica di smentire con il suo carico indiscutibile di verità e di umanità. Solo chi va oltre se stesso, che guarda agli altri con un senso autentico di prossimità, di altruismo, vorremmo dire di fraternità, dimostra nel pratico che cosa significhi vivere sereno con se stesso e stare bene con gli altri. Nulla è facile, niente va dato per scontato: i processi decisionali e direttivi hanno bisogno di certezze e di chiarezza, ma sicuramente queste giuste esigenze non devono andare a scapito della libertà, della dignità e della felicità delle altre persone che sono implicate e collaborano a questi percorsi.
Anzi, l’unica e decisiva chiave di volta per il successo di un leader illuminato risiede proprio nella sua umiltà, capacità di ascolto, disponibilità al dialogo, attitudine a valorizzare il contributo di ognuno e a promuovere l’impresa comune. E tutto diventa più facile, perché agendo in questo modo non si accumulano mugugni e proteste, frizioni e distanze, contrapposizioni e dispiaceri, e si consolida invece una invece una prassi fatta di attenzione costruttiva, stima reciproca, motivazioni forti, senso di identità, appartenenza e coinvolgimento, raggiungimento di mete significative in campo produttivo, economico e sociale.
Compreso il momento in cui si capisce che nell’interesse collettivo diventa preferibile fare un passo indietro, lasciare ad altri cariche e responsabilità, godere di quanto realizzato con le proprie doti e agevolare il passaggio di ruolo ai successori, nella consapevolezza che le novità fanno bene a tutti e che non si può perseverare all’infinito nella fissità del proprio “status”. Oltre noi stessi, guardando alle vite degli altri, con atti di bontà che diventano scelte di intelligenza. E saremo sempre felicemente stimati, benvoluti e ricordati.
(Autore: Redazione Qdpnews.it)
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