Alzi la mano chi non si è stupito negli ultimi tempi per un favore ricevuto da un collega automobilista, che magari con volto sorridente e gesto distensivo lo ha invitato a fare manovra e a immettersi in strada con precedenza non dovuta, evitando così lunghe code e snervanti attese.
E’ pregato di farsi avanti chi non si è meravigliato in recenti occasioni per il gesto imprevisto di qualche cliente in fila alla cassa del supermercato, che dopo aver visto pieno il proprio carrello della spesa e invece i limitati acquisti fatti al volo dall’altra persona ha pensato bene di farla passare avanti, così, per il semplice gusto di una gradita cortesia, capace di far risparmiare l’inevitabile attesa altrui.
Ancora, non tema di farsi riconoscere chi non ha espresso a vicini e lontani la sua felice sorpresa per un posto a sedere messo a disposizione da parte di altri durante un’affollata riunione, o in un particolare evento, ringraziati con vivo piacere nell’occasione perché non hanno esitato a lasciare la loro comoda situazione per assicurarsi un semplice posto in piedi, favorendo invece coloro che magari erano arrivati anche in ritardo, destinati ora a un comodo seggio, senza esigenze o meriti particolari.
Va così: la gentilezza al giorno d’oggi fa notizia, alimenta dialoghi compiaciuti tra familiari, amici e colleghi, fa parlare di sé come improbabile “cara estinta”, in quanto capace ancora di riapparire e di smentire tutti coloro che ne avevano profetizzato una oramai inevitabile, dolorosa scomparsa dalle scene e dalle pratiche della vita quotidiana.
Sgombriamo il campo da un equivoco di fondo: la gentilezza non appartiene al panorama delle cose deboli, delicate, fragili, riservate ad alcuni particolari intenditori e addetti ai lavori.
Non è un esercizio di buone maniere, un vademecum di comportamenti non ostili verso il prossimo, un prontuario di galanterie che rischiano anche di essere vetuste, antiquate, superate dalla velocità (e dalle trascuratezze) di una società troppo spesso veloce e distratta. La gentilezza è espressione di una visione alta dell’esistenza umana, di una forza interiore, di uno sguardo deciso e buono sulle persone che ci vivono accanto.
“La gentilezza è semplicemente uno dei modi migliori per essere felici, è un piacere fondamentale per il nostro benessere, che rende la vita degna di essere vissuta, per cui ogni attacco contro di lei è un attacco rivolto contro le nostre speranze””: così scrivono nel volume “Elogio della gentilezza” i due autori Adam Phillips e Barbara Taylor, indicandola come “valore irrinunciabile della vita buona”. Di sicuro, oggi, avvertiamo un progressivo scadimento di questa attitudine di bene verso le persone che ci circondano, immersi come siamo in un mondo che non dà importanza alla qualità delle relazioni, che si cura poco delle vite di tutti e di ciascuno, che si lascia influenzare da atteggiamenti, usanze e stili che tutto potremmo definire, fuorché gentili.
E’ come se da un certo punto in poi le “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità alla perenne ricerca di se stessa avessero determinato e orientato uno spirito di individualismo spinto, di autoreferenzialità potente, di una libertà privata volutamente giocata a spese degli altri, non insieme agli altri. E’ come se da un certo punto in poi fosse venuta meno la convinzione della “appartenenza reciproca”, si fosse indebolita gravemente l’inclinazione a pensarci “espressione vitale di comunità”, e parimenti si fosse invece rafforzata e diffusa la convinzione che ognuno basta a se stesso, agisce per istinto, piacere e volontà di dominio sugli altri, e che valori come la generosità, l’altruismo, la solidarietà, l’amorevolezza e la gratitudine non abbiano più ragione di sussistere nel tempo della modernità.
Eppure, nessun uomo è un’isola, nessuno si salva da solo. Ce lo siamo detti in ogni modo durante il tempo della pandemia, e ce lo siamo ribaditi in tante riflessioni che si sono susseguite nella stagione del post covid: la felicità delle persone sono le relazioni di prossimità, l’apertura alle vite degli altri, i sentimenti che muovono i gesti di attenzione. Insomma, il ritrovare negli altri se stessi, i medesimi desideri, le comuni aspirazioni, le necessità conosciute e riconosciute, e quindi l’agire di conseguenza, con l’attenzione viva e costante di chi ha trovato il senso autentico e profondo della vita e non vuole smarrirlo, per nessun motivo. In questo modo, la gentilezza ricevuta diviene gentilezza a sua volta donata, in un circuito virtuoso che alimenta l’attitudine alla generosità, alla compassione, alla cura, alla dedizione, al rispetto, in cui esiste un “di più” di gratuità e di dono riservato ai momenti concreti, alle situazioni particolari, alle esperienze originali che le persone affrontano nella loro vita.
Non si può negare che oggi la gentilezza stupisca, affascini, incuriosisca quanto meno, e sorprenda per la sua capacità di dire “altro” rispetto alle consuetudini non molto edificanti che segnano le prassi del costume attuale, caratterizzato purtroppo dalla fretta, dall’incuria, dalla ineleganza di opere e prassi, dalla mancanza di sensibilità in molti casi per le persone più fragili e affaticate, a volte da vera e propria maleducazione. Qualcuno ha capito, non si arrende e decide di coltivare senza timore la felicità della gentilezza, che fa stare bene, comunque e dovunque. Non è un richiamo a un tempo ormai trascorso, passato di moda.
E’ invece un segno eloquente, che parla al presente e al futuro, che colpisce nel segno, che dice valori e bellezza. Per strada, al supermercato, nelle sale d’incontro, in ogni altro luogo, per ogni azione in cui rinasce e si afferma l’idea di un nuovo umanesimo.
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