Come la S.V. Ill.ma e Rev.ma avrà già appreso dalla stampa, è volere dell’Augusto Pontefice che, anche nel caso di invasione, tutti gli ecclesiastici, vescovi e sacerdoti, rimangano al loro posto per compiere con la dovuta abnegazione il proprio dovere ed infondere negli altri la calma tanto necessaria in sì dolorose circostanze.
“Onore a questo nostro clero – scriveva il 7 agosto 1918 la profuga di Valdobbiadene, Caterina Arrigoni – per il modo in cui esplica il suo ministero in questi tempi fortunosi! Con ardentissimo patriottismo smentisce nel momento del pericolo e della prova i preconcetti che si avevano contro di esso. Al ritorno degli Italiani molti preconcetti dovranno cadere e quella nube che talor offuscava l’orizzonte dei cattolici dovrà dileguarsi. Noi, testimoni, sapremo rendere onore alla verità”.
Diverso il comportamento delle autorità amministrative comunali e provinciali: la maggior parte attraversò il Piave prima che i ponti venissero fatti saltare dall’Esercito italiano, abbandonando i propri cittadini. Non è un caso se, nel primo dopoguerra, questi politici non furono riconfermati o se molti Comuni furono commissariati dai Prefetti.
Di ben altro tenore gli innumerevoli esempi di grande solidarietà cristiana che videro protagonisti preti e cappellani nella Sinistra Piave occupata; molti dei quali furono costretti a svolgere anche incarichi amministrativi.
Si è scelto di mettere in risalto due figure di rilievo: don Giovanni Turra (vedi foto), parroco di San Vito di Valdobbiadene, e don Antonio Riva (vedi foto), cappellano di Segusino; entrambi profughi insieme ai profughi tra il Vittoriese ed il Friuli.
“Ho sentito narrare cose strazianti sui poveri Sanvitesi – scriveva il 26 novembre 1917 Caterina Arrigoni – Alle ore 11 del 10 novembre i cannoni erano già piazzati davanti alle case e cominciava la gragnola delle bombe. Il panico cresceva di ora in ora, perciò circa 400 persone, sotto l’egida del cappellano (don Giovanni Turra), decisero di cercare rifugio sui monti. (…) In mezzo a tanti orrori risplendeva fulgida la figura del cappellano: nonostante la salute malferma, ogni giorno scende in paese e risale nei monti con un sacco di provviste sulle spalle ed è così che provvede al vettovagliamento di quei meschini”.
Il trentenne don Antonio Riva, in assenza del titolare della parrocchia don Giovanni Battista Trentin, ebbe un ruolo sociale di fondamentale importanza per i segusinesi. Già durante i venti giorni di occupazione fece la “spola” tra coloro che si erano rifugiati a Stramare e Miliès e quelli che, invece, avevano deciso di rimanere in paese. Più volte mise a rischio la propria vita.
Egli stesso narrò in un breve diario: “Fui percosso, schiaffeggiato, rincorso con lo stilo, mi si puntò senza numero di volte il fucile con il grilletto alzato, chiuso in una stanza, custodito da un soldato armato, aspettava la fucilazione, che mi si diceva segnata per le undici di notte”.
Nel dicembre 1917, con la moglie del sindaco, accompagnò i profughi di Segusino a Tarzo e Fregona, dove trascorse l’anno della fame con grande tenacia, anche sacrificando se stesso per il bene dei parrocchiani. Ironia della sorte, mentre si festeggiava la vittoria e si iniziava ad organizzare la ricostruzione, don Antonio si ammalò di febbre spagnola e morì all’ospedale civile di Vittorio il 2 gennaio 1919. Aveva solo 32 anni.
Un sacrificio mai dimenticato, tanto che il 2 ottobre 1923 i segusinesi gli dedicarono una targa commemorativa molto sentita: “Cappellano di Segusino, eroe di carità, tutto diede per il suo popolo durante l’invasione. La popolazione riconoscente a perenne memoria pose”
(Fonte: Luca Nardi © Qdpnews.it).
(Foto: per gentile concessione di Luca Nardi)
#Qdpnews.it