Le cronache veneziane, ricche di aneddoti e curiosità, riferiscono che nel Quattrocento “Giorgio Castrioto, detto Scanderbeg” fu proprietario di un palazzo ubicato nei pressi della parrocchia e della salizzada di San Pantaleone. Una notizia apparentemente insignificante se non fosse che il personaggio in questione, a distanza di oltre seicento anni, rappresenta ancora oggi il simbolo dell’orgoglio nazionale albanese.
Giergj Kastrioti Skënderbeu, noto anche come Giorgio Castriotto, Castriotus, Castriota o Scannabecchi, venne alla luce nel 1405 in un villaggio dell’Albania centro settentrionale. Rampollo di una potente famiglia impegnata a contrastare l’avanzata dell’Impero ottomano nel cuore dei Balcani, sin da piccolo sperimentò in prima persona cosa significasse lottare per difendere la libertà della propria terra dall’avidità straniera.
Una lotta impari, quella dei Castrioti, costretti a cercare il sostegno ora di Venezia e ora dei Serbi per tentare di non soccombere dinanzi all’inarrestabile macchina da guerra turca. Sopraffatto dalle armi ottomane, il padre di Giorgio Castriota fu alla fine costretto a cedere i quattro figli maschi al Sultano, in ossequio alla feroce consuetudine del devşirme, la periodica raccolta di giovani maschi dai 12 ai 18 anni destinati alla carriera militare o a quella di servitori di palazzo.
Dei quattro due morirono, forse avvelenati, e uno si fece monaco. Giorgio, appena sedicenne, non tardò invece a farsi notare per le qualità fisiche e intellettuali: imponente e carismatico, pare fosse in grado di padroneggiare oltre alla propria lingua, il turco, l’arabo, il greco, il bulgaro, l’italiano e il serbocroato. Ammirato per la spiccata attitudine al combattimento, il Castriota si guadagnò sul campo di battaglia lo pseudonimo di “Iskender Bej”, divenuto Scanderbeg: Iskender evocava la leggendaria figura di Alessandro Magno, Bej ne accresceva il prestigio in quanto sinonimo di “comandante” e “signore”.
Avviato a una brillante carriera nei ranghi dell’esercito turco (riuscì addirittura a scompaginare le temibili orde mongole), Scanderbeg cambiò improvvisamente rotta abbandonando il Sultano per dedicare la propria esistenza alla causa albanese. Le ragioni di questa scelta restano oscure: un’improvvisa conversione al cristianesimo, una clamorosa riscoperta delle proprie radici nazionali o forse una spietata rivalsa nei confronti del sovrano ottomano che non avrebbero mantenuto la promessa di restituire alla sua famiglia il castello e le terre di Kruje.
A capo della lega antiturca di Alessio (oggi Lezhë), forte del sostegno del Papa, di Venezia e del Re di Napoli, Scanderbeg divenne una sorta di “difensore della cristianità” a cui i potenti scaricarono volentieri gli oneri di una guerra logorante, costosissima e nella quale, per non compromettere i lucrosi traffici mercantili con l’Oriente, era prudente muoversi con cautela ed esporsi il meno possibile.
Da un punto di vista squisitamente tattico il Castriota era un comandante inarrivabile, l’unico in grado di amalgamare i bellicosi clan albanesi e convincerli che in alcune circostanze la ritirata era pagante e non disonorevole. Una leggenda narra che Scanderbeg sfidò i propri ufficiali invitandoli a spezzare un fascio di legnetti. Nessuno ci riuscì ed egli, scomposto il mazzo di ramoscelli, mostrò come fosse facile romperli a uno a uno: la dimostrazione che era necessario restare uniti e mettere da parte il tradizionale orgoglio di appartenenza all’una o all’altra famiglia.
Sebbene costellata di successi e di epiche vittorie, la resistenza contro l’avanzata turca era di fatto destinata a fallire. Perennemente in soggezione di quota, Scanderbeg lottò fino all’ultimo con determinazione entrando nel mito grazie anche a intuizioni geniali. Come quella volta in cui fece legare delle torce alle corna di un gregge di capre che, lanciato contro il nemico dopo il tramonto, seminò il panico fra gli avversari.
Nel 1468, secondo alcune fonti il 4 di gennaio, dopo una vita spesa per la libertà del popolo albanese, Scanderbeg spirò in preda alle febbri malariche. I turchi furono liberi di dilagare nei territori sino ad allora strenuamente difesi dal Castriota e dai suoi uomini e, di lì a poco, nel 1480, misero addirittura a ferro e fuoco la città di Otranto. Il loro trionfo, tuttavia, non intaccò minimamente il mito di Scanderbeg che nel frattempo era stato sepolto ad Alessio nella chiesa di San Nicola.
Un suo ritratto, pare il più antico, è conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze e all’eroe albanese sono state dedicate vie, edifici e monumenti equestri in Italia, nei Balcani, in Grecia, a Londra e Parigi. Scanderbeg ha ispirato musicisti del calibro di Antonio Vivaldi, registi cinematografici e scrittori, fra i quali Ismail Kadaré, scomparso recentemente e autore del capolavoro I tamburi della pioggia. Al Castriota, infine, è intitolato un importante ordine equestre d’Albania.
Se la figura di Scanderbeg coincide con l’orgoglio identitario albanese, non sono purtroppo mancate palesi strumentalizzazioni, come quando si decise di ribattezzare la 21^ divisione da montagna delle SS “21te Waffen-Gebirgs-Division Skanderbeg”.
Una circostanza che non ha compromesso il valore di un condottiero eroico, di un comandante leggendario e di un uomo le cui doti di forza e fierezza sono ancora oggi patrimonio del popolo albanese, gli indomiti abitanti del “Paese delle Aquile”.
(Autore: Marcello Marzani)
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